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    A rischio licenziamento o depressione, questa è la dura vita dei “caregivers”

    «Sono come un pompiere: quando suona la sirena corro là dove c’è più bisogno d’aiuto». Silvia sta passando un «periodo un po' difficile» che dura da più di un anno senza che per ora si riesca ad intravedere una via d’uscita. Negli ultimi 15 mesi ha alternato le vesti di moglie-madre-figlia-casalinga a quelle di "assistente" di sua cognata Manuela che, appena raggiunto il traguardo della pensione, si è ritrovata d’improvviso a doversi operare per un carcinoma del colon. Si ritrova così a correre fra Milano, la Brianza e Pavia, da casa sua a quella del padre anziano a quella della cognata, dall’ospedale alle faccende domestiche, da scuola al supermercato. Come lei, stando solo alle statistiche oncologiche, un italiano su tre vede intrecciarsi le sue vicende quotidiane con una diagnosi di tumore che lo interessa in prima persona o che riguarda un parente stretto, un amico, un vicino di casa a cui serve sostegno. E il tumore diventa una "malattia di famiglia": i caregivers (termine inglese per indicare chi offre le proprie cure a un malato) devono fare i conti con un dispendio di stress, soldi, preoccupazioni, tempo che si ripercuote nell’impegno lavorativo, compreso quello delle casalinghe, e sulla serenità familiare, che stenta a trovare un suo equilibrio.
    AFFETTO E FARMACI – Sono circa due milioni e 200mila i malati di tumore in Italia e oltre 400mila i nuovi casi registrati ogni anno. La vicenda di Silvia è simile a moltissime altre: famiglie "in assetto da combattimento" a causa della malattia che riordinano le truppe a seconda di nuove necessità e serrano i ranghi, sperando di vincere la battaglia. Silvia, 50 anni, vive a Milano, è mamma di Giuseppe che ha 15 anni e fa la seconda liceo scientifico e moglie di Daniele, che lavora in una piccola azienda informatica. «Eravamo in vacanza tutti insieme l’estate scorsa, nel 2009, sulle Alpi francesi – racconta -. Noi tre, mio padre e mio fratello, i miei suoceri e Manuela, la sorella di mio marito, con sua figlia Valeria. Manuela si è sentita male, sembrava un’occlusione intestinale. Siamo stati al pronto soccorso e l’hanno operata. Così, senza preavviso e tutto d’un colpo, siamo precipitati in un altro mondo: tumore al colon con metastasi al fegato». Un mese dopo il primo intervento (che le ha lasciato 50 punti di sutura e una stomia), Manuela ha subito una seconda operazione e ora sta facendo vari cicli di chemioterapia. È autosufficiente, ma il periodo di convalescenza dopo la chirurgia è stato faticoso e per parecchio tempo ha avuto bisogno di assistenza giorno e notte. «Sua figlia Valeria lavora, ha 35 anni – prosegue Silvia -. Si prende cura della madre, la notizia della malattia però l’ha sconvolta. L’aiuto di cui hanno bisogno è sì materiale (per visite o cure mediche, la spesa, commissioni varie, gestione della casa), ma è indispensabile anche il supporto morale. Sai cos’ho imparato? A dispensare coccole, ad entrambe. Una dose quotidiana di affetto, ascolto, un’iniezione di forza che servono tanto quanto i farmaci».
    PIÙ VICINANZA – Quasi la metà dei malati ricoverati negli ospedali italiani desidera una maggiore vicinanza dei familiari. Il 42 per cento dei degenti vorrebbe che le visite delle persone care fossero più numerose e più lunghe, visto che proprio quelle sono il momento migliore delle giornate ospedaliere per oltre sette pazienti su dieci, mentre le ore più difficili sono quelle del risveglio e della notte. D’altro canto, stando sempre ai dati dell’ultimo studio sul sollievo realizzato dalla Fondazione Gigi Ghirotti, un terzo dei malati (34 per cento) non vuole essere di peso ai familiari, desidera essere autosufficiente nei movimenti (32 per cento), vuole sentirsi rassicurato e tranquillizzato (31). Infine, un quarto dei quasi 24mila intervistati preferirebbe ricevere assistenza a casa. «Sembra una contraddizione insolubile, volere più spesso i parenti e non essere troppo d’intralcio – commenta Manuela Provantini, psicologa e conduttrice del gruppo di sostegno per caregivers dell’associazione Attive come prima -, ma le due cose si possono conciliare. Troppo spesso chi accudisce un malato si annulla e così facendo sbaglia due volte: primo perché mantenere uno spazio d’autonomia serve a rigenerarsi e a trovare energie nuove da investire poi nell’impegno di assistenza, secondo perché il malato se ne accorge e ne soffre. Prendersi un pomeriggio, una giornata, un weekend quando possibile allevia l’animo di entrambi».
    LICENZIAMENTO – «Io sono una casalinga – dice Silvia – e non devo chiedere permessi a nessuno. Ma spesso mi chiedo come avremmo fatto a gestire la situazione se io avessi lavorato: oltre al dramma di mia cognata, che vive a Pavia mentre noi stiamo a Milano, c’è mio padre (che vive in Brianza e da sempre si prende cura di mio fratello Down che abita con lui) che ha perso la vista praticamente del tutto nell’ultimo anno, i genitori di mio marito ormai molto anziani che necessitano di cure, un figlio per fortuna già adolescente e così maturo da capire l’emergenza. Abbiamo chiesto aiuto a infermieri e badanti e quando squilla l’allarme corro da chi ha più bisogno. Che fatica però fare l’equilibrista!». Quando la situazione si complica, sempre più spesso i familiari lavoratori di un paziente oncologico (genitori, figli, coniuge convivente) richiedono di poter usufruire del congedo straordinario familiare biennale retribuito. «E con crescente frequenza vengono sottoposti a mobbing, colpiti con multe ingiuste, vessati dai controlli fiscali e alla fine, purtroppo accade, licenziati – raccontano dal servizio legale dell’Aimac – Associazione italiana malati di cancro, che tramite il suo numero verde offre sostegno psicologico e medico, oltre che giurdico, a pazienti e familiari -. Esistono però leggi e garanzie da far valere, basta esserne informati».
    DEPRESSIONE – Chi assiste un malato deve avere una forza psicologica notevole, perché si assume il compito di sostenere il malato e mostrarsi forte, infondergli ottimismo, fare da intermediario con i medici, provvedere a molte incombenze quotidiane, sanitarie, legali e fare molto altro: un carico fisico ed emotivo che mette a dura prova anche le persone più forti e più psicologicamente attrezzate. Molto spesso, però, chi accudisce un malato ha poche occasioni di parlare della sua condizione, delle sue difficoltà, delle sue speranze o frustrazioni. E può sentirsi quasi in colpa se prova disagio, come se non gli fosse permesso soffrire. Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Cancer, condotto su quasi 21mila uomini con compagne malate di cancro al seno, ha messo in evidenza i pericoli per la salute mentale dei caregivers, che possono persino arrivare (nei casi più gravi) ad avere a loro volta bisogno di un ricovero in ospedale. Un gruppo di ricercatori danesi ha analizzato i dati di un milione e 163mila maschi dai 30 anni in su, seguiti per 13 anni durante i quali 20.538 hanno dovuto assistere la partner ammalatasi di un carcinoma mammario. Fra questi, 180 sono stati ricoverati per disturbi affettivi. «I risultati del nostro studio – spiega Christoffer Johansen dell’Institute of Cancer Epidemiology di Copenhagen e autore della ricerca – mostrano quanto peso debbano sopportare i caregivers: stress, ansia, disturbi emotivi, problemi sociali ed economici possono sfociare in depressione. Così nelle situazioni più complesse, quando magari il cancro ricompare dopo le cure o ci si ritrova a gestire un lutto, anche il partner sano sviluppa una patologia psicologica seria».
    CONSIGLI UTILI – Raramente il carico emotivo dei parenti sfocia in depressione vera, ma sempre più medici sono consapevoli dell’importanza di tenere sotto controllo anche i familiari di un malato oncologico. «I caregivers sono come spugne – chiarisce Manuela Provantini -, assorbono tensioni e sofferenze e troppo spesso non le scaricano: non si confidano e non parlano con altri familiari, amici, colleghi. Mentre hanno bisogno di una loro "area benessere" per mettere in circolo nuove energie positive da spendere nella loro faticosa attività di assistenza». Il consiglio della psicologa è dunque quello di difendere lo spazio per i proprio interessi personali, per fare sport, una serata a teatro, in modo da smaltire lo stress e uscire dalla malattia. «Per me – conclude Silvia – sono stati fondamentali i gruppi di sostegno per caregivers organizzati da Attive come prima. Lì mi sono fatta forza, ho trovato aiuto e ascolto. Non mi sono sentita sola e ho ricevuto consigli preziosi, anche per mia nipote che ha avuto un vero tracollo alla malattia della madre: era materialmente utile, sì, ma completamente smarrita. E per la coppia: con tutte queste emergenze io e mio marito fatichiamo a trovare tempo per noi. Ma la malattia ci ha unito più che mai. Abbiamo capito che è importante esserci, stare vicino, dare e prendere affetto, qui e ora, con le persone che oggi ci sono accanto. Tutto il resto può essere rinviato a domani».
     
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