Come tutti quanti noi sappiamo, la demenza è una degenerazione cerebrale che determina la progressiva compromissione delle facoltà mentali, tale da interferire significativamente con le occupazioni giornaliere della persona.
La malattia di Alzheimer, nello specifico inoltre, rappresenta circa il 50-70 % delle forme di demenza.
Possiamo affermare che la maggior parte degli anziani mantiene un buon grado di autonomia, tuttavia, si può stimare che circa il 6,4% della popolazione sopra i 65 anni sviluppi una forma di demenza (30% dopo gli 85 anni), cifre confermate dai dati raccolti dall'Alzheimer Association e pubblicati in occasione dell'ultima giornata mondiale dedicata all'Alzheimer tenutasi, comunitariamente, il 21 settembre di quest'anno.
A tutt’oggi la ricerca scientifica è impegnata sostanzialmente alla “disperata” ricerca di un farmaco capace di arrestare la degenerazione neuronale causata da questa malattia ma, fino ad ora, quasi tutti i tentativi hanno fallito producendo, al massimo, qualche sostanza capace, nella migliore delle ipotesi, di rallentare il deterioramento cognitivo per un certo periodo di tempo, variabile da soggetto a soggetto, senza mai arrestarne realmente il corso.
Ma tutto questo entro il 2020 potrebbe cambiare e sicuramente, anche gli psicologi e non solo i medici, potrebbero fare la differenza.
E' in atto, infatti, un radicale mutamento di pensiero che ha portato alla consapevolezza che, contro questa malattia, si è sempre intervenuti troppo tardi ed è un po' come tentare di chiudere la stalla quando ormai le mucche sono fuggite.
La scienza ha ormai scoperto da tempo come nel cervello dei malati si accumulino dei killer, tra cui una proteina, l’amiloide, che si ritiene la responsabile principale della malattia.
È presente in tutti i cervelli ma in condizioni di normalità viene tagliata da “forbici enzimatiche” in frammenti che si dissolvono nel liquido cerebrospinale che bagna il cervello e il midollo spinale.
In condizioni di patologia, invece, queste forbici tagliano nel punto sbagliato, formando frammenti che invece di dissolversi tendono ad aggregarsi, fino a formare placche, il cui deposito innesca reazioni che uccidono le cellule cerebrali. Dare ai malati farmaci contro l’amiloide è stata quindi la strategia più gettonata.
Ma decine e decine di tentativi sono tutti andati a vuoto. Come mai?
Probabilmente la ragione cruciale di tutti i fallimenti è una: si interviene troppo poco e troppo tardi. Quando compare la demenza la malattia è ormai avanzata e molti neuroni sono già danneggiati irreparabilmente, perché si è scoperto che le placche di amiloide e gli altri fenomeni degenerativi del cervello iniziano 15-20 anni prima.
E allora ecco che arriva la svolta concettuale: non intervenire sui malati avanzati ma su chi mostra i lievi disturbi che spesso preludono alla demenza, il cosiddetto declino cognitivo lieve, sperimentando su questi pazienti i farmaci di nuova generazione, che riescano ad eliminare l'amiloide prima che il suo accumulo possa portare a danni irreversibili.
E lo psicologo che si occupa di anziani, in mezzo a tutto questo, che cosa può fare?
Sicuramente può combattere la battaglia su almeno due fronti, il primo dei quali è quello della diagnosi precoce della malattia attraverso la sensibilizzazione della popolazione anziana ed il monitoraggio continuo delle capacità cognitive.
Lo screening attraverso semplici test neuropsicologici del proprio cervello ed il check-up del suo stato di salute dovrebbero diventare una prassi comune, come lo sono le analisi del sangue di routine per il controllo dell’ipertensione e/o del diabete.
In questa maniera si aiuterebbe a spostare all'indietro “l'orologio della malattia” permettendo ai medici di intervenire con i farmaci in fasi finalmente embrionali del disturbo.
Il secondo fronte, non meno importante del primo, è poi quello legato alla stimolazione delle facoltà cognitive, che avrebbe maggiore impatto sulla qualità di vita della persona anziana, come riportano tutte le ricerche, perchè l'intervento terapeutico verrebbe anch'esso effettuato a livello molto precoce, massimizzando l'effetto dei farmaci stessi.
Con una buona formazione pratico-teorica ed un bagaglio di conoscenze che spazino dalla valutazione neuropsicologica e testistica della persona anziana, alla diagnosi differenziale, alle caratteristiche cliniche e neuropatologiche dei principali tipi di demenza, fino all’utilizzo delle più innovative tecniche di riabilitazione cognitiva e della memoria, lo psicologo rientra a pieno titolo nel campo degli “specialisti dell’invecchiamento”.
La prevenzione nella demenza e, in particolar modo nella malattia di alzheimer, può avere molte forme. Sarà cruciale capire i molti modi di prevenire le placche amiloidi, con farmaci diversi ma anche promuovendo stili di vita salutari ed interventi cognitivi. solo ritardare l’esordio di 5-10 anni eviterebbe milioni di malati, e molti addirittura concluderebbero la loro vita senza mai ammalarsi.
Bibliografia
ZANETTI O. TRABUCCHI M. Le demenze: una guida per i famigliari – IV Edizione; IRCCS Brescia; 2005.
QUAIA L. Alzheimer e riabilitazione cognitiva; Carocci-Faber, 2006.
AUSL di Ravenna. La stimolazione cognitiva per il benessere della persona con demenza – Linee guida di intervento; 2007.