Gli ultras "ragionano tutti allo stesso modo, sia in Italia che altrove". A 'viaggiare' nella mente dei tifosi violenti per tracciarne un profilo è stato Roberto Maniglio, psicologo e psicoterapeuta, oltre che membro della Società italiana di Criminologia e ricercatore all'università del Salento. L'identikit è stato poi pubblicato sul Journal of Forensic Sciences. Uno studio che forse può aiutare a prevenire disordini e incidenti prima, durante e dopo le partite di calcio 'a rischio', come il match di questa sera tra Manchester e Roma, alla luce degli scontri della partita di andata, o di altri incontri tra tifoserie 'nemiche'.
"Nella testa degli ultras – spiega Maniglio all'ADNKRONOS SALUTE – ho individuato tratti psicologici comuni. A fare la differenza tra il tifo comune e quello violento – dice – è lo scopo che ciascuno si prefigge, che nella mente dell'hooligan si manifesta nel desiderio di essere riconosciuto dagli altri come il miglior sostenitore, ma anche il miglior combattente tra tutti".
Un obiettivo che lo psicologo ha denominato della "supremazia riconosciuta", che serve al tifoso "per lasciare il segno e fornire prove della sua lealtà alla squadra", anche a costo di 'fare danni a cose e persone'. Uno scopo che ciascun ultras persegue "con premeditazione, senza percepire nelle sue azioni alcun segno di anomalia o comportamento antisociale o violento".
Maniglio ha formulato la sua teoria dopo aver assistito per almeno due anni alcuni tifosi violenti nella comunità per tossicodipendenti Emmaus. "Supporter di diverse squadre di calcio italiane, e di diverse aree geografiche del Paese". Ma subito chiarisce: "Non è possibile tracciare l'equazione tifo violento, uguale dipendenza da sostanze stupefacenti o alcol.
Anche se in alcuni casi l'ultras beve, in altri assume droghe. Ma – ricorda – nella patria degli hooligans, la Gran Bretagna, la frase che sintetizza meglio questa relazione recita 'non tutti gli hooligans bevono prima di combattere. Non tutti quelli che bevono poi combattono'".
Altro punto da chiarire – dice Maniglio – è che "non per forza l'ultras deve dare prova di essere il miglior tifoso e il miglior combattente nella stessa partita. Ogni incontro della squadra del cuore – prosegue lo psicologo – fa storia a sé.
Dipende dagli avversari". Essere riconosciuto come il miglior sostenitore della propria squadra significa, nella testa dell'ultras, "farsi valere per l'impegno profuso in canti, coreografie, grida e striscioni.
Tutte manifestazioni di per sé non pericolose socialmente", commenta Maniglio. Anzi, lo psicologo critica le ipotesi di inasprimento delle leggi che limitano questa espressione del tifo. "Se si cercherà di soffocare questo tipo di manifestazioni del tifoso, più facilmente l'ultras cercherà di farsi notare come combattente. Dunque attraversi gli scontri".
Diversamente, "quando tra tifoserie esiste una rivalità o un'ostilità storica, come nel caso dei derby o di incontri tra città rivali, l'hooligan cercherà di dare prova di sè e di farsi notare come migliore combattente. Perché – sottolinea Maniglio – le coreografie e i canti non sono più sufficienti. E allora l'obiettivo diventa quello di combattere e distruggere.
Il miglior tifoso allora sarà – aggiunge lo psicologo – quello che creerà più danni". Questo meccanismo mentale diventa pericoloso non solo per i tifosi avversari, ma anche per le forze dell'ordine, perché "quando non c'è la possibilità di entrare in contatto con i tifosi avversari – spiega l'esperto – allora l'ultras si rivolgerà contro la Polizia.
In quel caso l'occasione, per l'hooligan, sarà quella di dare una migliore prova di coraggio". Un comportamento che si mette in atto "con premeditazione, avendo chiaro il proprio scopo, nella convinzione che il fine della propria affermazione come miglior ultras giustifichi i mezzi per ottenere tale riconoscimento".
Cosa distingue, invece, il tifoso tradizionale dall'ultras violento? "Alla base – continua Maniglio – c'è un processo comune, cioè quello dell'identificazione con la squadra. Un senso di appartenenza che è simile a quello del sentirsi di una nazione comune. Al tifoso comune e non violento però – incalza – manca l'aspetto competitivo personale con il supporter avversario. Mentre l'ultras ha sempre di fronte ciò che fa il sostenitore dell'altra squadra, perché deve superarlo".
Un comportamento "che nessun hooligan percepisce come anormale. E dunque nessuno chiederà mai aiuto a uno psicologo", prosegue lo psicoterapeuta secondo cui "servono provvedimenti generalizzati, a partire dall'educazione nelle scuole". Diverso il giudizio nei confronti dei controlli negli stadi e attorno ai terreni di gioco. "Se è vero che alcune misure anti-hooligans, come quelle assunte a suo tempo dalla Gran Bretagna, hanno avuto l'effetto di scoraggiare certi comportamenti violenti – dice ancora Maniglio – è pur vero che telecamere e controlli rigorosi non sono sufficienti perchè gli scontri, in Italia come pure nel Regno Unito, possono verificarsi anche fuori e contro la Polizia. Catania insegna", commenta amaro.
Da qui il suggerimento a prendere "provvedimenti più organici, di carattere socio-culturale ed educativi". A "fornire le forze dell'ordine di maggiore sicurezza" e a cercare di istillare "nel calcio nuovi valori".
Articolo tratto da: http://it.news.yahoo.com/