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    I Gruppi ABC per i familiari di malati di Alzheimer

    La Malattia di Alzheimer è una patologia caratterizzata da una lenta e progressiva degenerazione neuronale che compromette le capacità cognitive e funzionali del malato.

    La stima della prevalenza della Malattia di Alzheimer in Italia è di 600.000 malati, 40.000 nella sola Provincia di Roma. In Italia, secondo lo studio ILSA del CNR la demenza interessa il 6,4% delle persone oltre i 65 anni, dei quali il 7,2% sono donne e il 5,6% sono uomini.

    Purtroppo più dei due terzi dei malati di Alzheimer riceve una diagnosi quando la malattia è progredita oltre gli stadi più lievi.

    Questa patologia altamente invalidante è in continuo aumento, dato il fenomeno dell'invecchiamento globale della popolazione, e rappresenta una delle più significative "emergenze" che i sistemi socio-sanitari si trovino ad affrontare, a causa dell'impatto che ha sui servizi assistenziali e sulle famiglie.

    In questo contesto è spontaneo chiedersi se ci sia qualcosa da fare al fine di prevenire o ritardare l’esordio della malattia.

    Le scelte che facciamo possono fungere da deterrente al declino cognitivo!

    La dieta è uno dei primi fattori dello stile di vita che può incidere sullo sviluppo dell’Alzheimer.

    I grassi saturi sono collegabili a diverse patologie (colesterolo alto, obesità, problemi cardiaci, diabete di tipo 2) e gli studiosi ritengono che una dieta ricca di grassi saturi possa aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer (Morris et al. 2003).
    Gli acidi grassi omega-3, il DHA in particolare, sono importanti per lo sviluppo e il mantenimento di parecchie funzioni del Sistema Nervoso Centrale. É stato osservato che chi consuma regolarmente acidi grassi omega-3 presenta un ridotto declino cognitivo e una perdita di funzioni mnesiche più lenta (Morris et al. 2002).
    Anche il consumo di frutta (principalmente mirtilli e uva nera) e verdura è fondamentale per la salute cognitiva (Morris 2004).

    I ricercatori hanno concluso che ‘l’alta aderenza alla dieta mediterranea è associata ad un ridotto rischio per l’AD’ (Scarmeas et al. 2006). Anche il consumo d’alcol (in particolare vino rosso) può avere dei benefici nel mantenere la salute cognitiva: uno o due bicchieri di alcol al giorno (15 grammi circa) abbassa il rischio di problemi cognitivi e di demenza (Cao et al. 2000).

    L’esercizio fisico riduce il rischio correlato all’infarto, all’ictus e al diabete e sono in corso delle sperimentazioni cliniche volte a testare se l’attività fisica possa essere un fattibile intervento contro il declino cognitivo. Rimanere fisicamente attivi, fare ad esempio una camminata o esercizio moderato per 30 minuti al giorno, sembra ridurre il rischio di sviluppare l’Alzheimer (Sabbagh 2011)!

    Esistono prove a favore della teoria che le attività cognitivamente stimolati possano essere fondamentali nella prevenzione della Malattia di Alzheimer.

    Uno studio svolto su cinquemila anziani (Bronx Aging Study) ha mostrato che i soggetti che avevano riferito di avere interessi come i giochi in scatola, suonare uno strumento musicale, fare puzzle sembrano essere a rischio più basso di sviluppare demenza (Bosma et al. 2003).

    Gli studiosi (Bruandet et al. 2008) hanno dimostrato anche l’esistenza di un collegamento tra il livello di scolarità e la demenza: maggiore è la scolarità minore è la possibilità di sviluppare demenza. Il rovescio della medaglia non è però così positivo: nei soggetti che sviluppano demenza, purtroppo, più alta è la scolarità più rapido è il declino cognitivo.

    Una possibile spiegazione dell’effetto protettivo dell’alta scolarità deriva dalla teoria della ‘Riserva Cognitiva’ (Stern 1999), che suggerisce che la scolarità aumenti il numero di connessioni tra i neuroni permettendo di raggiungere prestazioni cognitive di alto livello.
    L’esistenza di una rete neuronale più complessa implica che il danno alle strutture cerebrali debba essere notevolmente esteso prima che si notino i sintomi della demenza.
    La malattia viene quindi diagnosticata quando i danni strutturali sono ingenti dando l’idea che il declino sia più rapido.

    I ricercatori (Wilson et al. 2003) hanno deciso di stabilire una relazione tra scolarità e tasso di declino cognitivo nell’Alzheimer, concludendo che i malati di Alzheimer con una scolarità più elevata mostravano un declino cognitivo più veloce. Ciò sembra confermare l’ipotesi che i soggetti con alta scolarità compensino più a lungo i sintomi cognitivi.

    Studi su gemelli omozigoti hanno dimostrato che il gemello che più si era dedicato ad attività cognitive aveva ridotto il rischio di sviluppare una demenza (Sabbagh 2011).

    Interessanti sono i dati che testimoniano che guardare la televisione si associ ad un aumento del 20% del rischio di sviluppare deficit cognitivo (Sabbagh 2011).
    La maggior parte degli esperti è d’accordo nel sostenere che incoraggiare le persone a mantenersi cognitivamente attive sia positivo: a fronte di un potenziale beneficio non esiste nessuna controindicazione!

    É possibile dunque prevenire l’Alzheimer?
    La risposta è ‘forse’!

    L’Alzheimer è una malattia molto complessa, di cui ancora non conosciamo la causa, ma conoscendone alcuni meccanismi funzionali, è possibile ipotizzare che determinati accorgimenti possano aiutarci nella dura battaglia contro di essa.

    L’utilizzo congiunto dell’esercizio fisico, mentale e di una dieta sana può sicuramente influenzare in positivo il rischio dello sviluppare questa malattia.
     
    I Gruppi ABC per i familiari di malati di Alzheimer

    La demenza può essere in qualche modo definita una ‘malattia famigliare’: non colpisce solo la persona malata, ma produce un impatto su tutta la sua famiglia.

    La diagnosi di demenza determina uno sconvolgimento di ruoli, funzioni e confini all’interno della famiglia. Spesso si assiste alla ‘parentificazione’, in cui i figli assumono un ruolo di accudimento del genitore.
    La diagnosi di demenza può portare all’acutizzazione di aspetti e conflitti famigliari pre-esistenti.
    L’accettazione stessa della diagnosi non è facile: oltre alla preoccupazione per la situazione del proprio caro, le persone possono sperimentare un senso di perdita (inteso come ‘perdita funzionale’ di un membro chiave della famiglia, ma anche la ‘perdita emotiva’ di una persona in grado di produrre energia e ‘felicità’ all’interno del gruppo familiare).

    Non ritrovare più la persona con cui si è vissuto tanti anni, non essere riconosciuti, non riuscire più a comunicare, assistere impotenti al declino del proprio caro: sono solo alcuni dei vissuti che possono generare una profonda sofferenza in chi assiste (ovverosia il cosiddetto “caregiver” o prestatore di cure) e destabilizzare l’intero sistema-famiglia.

    Spesso si parla del malato di demenza che non riconosce più i suoi cari, ma anche il famigliare non si sente riconosciuto. I caregivers riferiscono, che alla mancanza di riconoscimento da parte dell’ammalato, si somma il senso di frustrazione ed impotenza per la nuova situazione di vita e il mancato riconoscimento dei loro sforzi, come se tutto il loro operare non valesse nulla.
     
    La malattia può venir vissuta come un tradimento, non permette alla coppia di coniugi di cui uno dei due affetto da demenza, di portare a realizzazione il progetto di invecchiare serenamente assieme e prendersi cura l’uno dell’altro, o può portare il coniuge sano a veder negata la propria identità, come se una parte di sé gli venisse sottratta.

    Il famigliare che assiste un malato di demenza non è solo un caregiver, ma è prima di tutto una persona con un lavoro (o che aveva un lavoro), con degli interessi, con affetti, una persona che può avere dei problemi di salute, una persona che può desiderare e avere bisogno di vivere (la sua vecchiaia) in modo sereno, una persona che invece si trova in una condizione di sovraccarico (fisico e mentale), di isolamento e spesso di emarginazione.

    Il familiare che si prende cura del malato di demenza è stato definito come la ‘vittima nascosta’. Chi, per tanti anni si prende cura dell’altro, rivendica nel tempo la necessità di essere ‘accudito’ e quindi il suo stesso bisogno di cure e attenzioni. Si deve prendere in carico non solo il paziente affetto da demenza, ma anche la persona che lo assiste!

    I ‘Gruppi ABC’ ideati dallo Psicoterapeuta Pietro Vigorelli sono un percorso di formazione e condivisione, una strategia terapeutica diretta (per chi assiste) e indiretta (per i pazienti affetti da demenza).

    Durante i cinque incontri previsti vengono ‘insegnati’ i 12 passi, ossia 12 tecniche conversazionali e suggerimenti utili su come impostare la relazione e la comunicazione con il proprio caro affetto da demenza.

    Tra gli obiettivi del gruppo vanno evidenziati il fornire al caregiver strategie utili per fronteggiare i possibili stati d’animo negativi come ansia, depressione e il senso d’impotenza.
     
    Vigorelli definisce ‘danno aggiuntivo’ quel danno deriva dalla cattiva interazione dell’ammalato con l’ambiente che lo circonda e che si nutre di vissuti di incomprensione, frustrazione, impotenza, svalutazione e mancanza di riconoscimento delle identità.
    Il malato stesso, almeno nelle fasi iniziali, sa di non potersi più fidare di sé stesso e della propria memoria, diventa insicuro e vulnerabile, ossessionato dalla propria malattia.
     
    Anche la famiglia tende a trattarlo come ‘il demente’, svalutando la persona, i suoi ruoli e funzioni. A tal proposito Vigorelli parla delle 5 ‘Competenze Elementari’, che possono essere definite come le abilità elementare che definiscono ‘la persona’ e che come tali vanno rispettate: la competenza a parlare, la competenza a comunicare, la competenza emotiva, la competenza a contrattare e la competenza a decidere.
     
    Quando l’anziano si ammala i famigliari e gli operatori tendono a non prendere più in considerazione le sue parole, le sue emozioni, il suo punto di vista e le sue decisioni. Riconoscere le ‘Competenze elementari’ significa individuare e ridare dignità all’Uomo nel ‘demente’.

    Quando si aggravano i disturbi del linguaggio molti pazienti smettono di parlare in un momento in cui sono ancora in grado di farlo e giungono al mutacismo.
     
    Scopo della terapia conversazionale è quello di favorire la ‘conversazione possibile’. Il paziente con demenza, pur perdendo progressivamente la capacità di comunicare (intesa come capacità di esprimere pensieri e articolare parole), conserva la capacità di conversare (condividere emozioni): anche fallendo da un punto di vista informativo viene mantenuta la capacità di dare e prendere parola a tempo debito ed essere riconosciuti come interlocutori.
     
    Così la conversazione può diventare terapeutica: il paziente viene riconosciuto come persona con una dignità, aumenta l’autostima e rallenta il declino della parola.

    Un altro obiettivo necessario secondo Vigorelli è quello di creare il ‘Punto d’Incontro Felice’, ossia un momento in cui il caregiver e il suo caro riescono a sentirsi soddisfatti della condivisione raggiunta: può trattarsi di un’attività domestica, di un rituale famigliare, di un breve scambio comunicativo o semplicemente di un rassicurante contatto fisico, basta che nasca dall’autentica alleanza terapeutica.

    I Gruppi ABC oltre ad adempiere alla funzione di gruppi di auto-aiuto, hanno lo specifico obiettivo di determinare un effetto positivo sul paziente.
     
    Il confronto tra i familiari e la presenza di un conduttore esperto nell’uso della relazione e della comunicazione sono fattori che favoriscono un processo di cambiamento. I famigliari possono vagliare nuove strategie e nuovi modelli di comportamento.

    Bibliografia

    Bowen M. (1979), Dalla famiglia all’individuo – La differenziazione del Sè nel sistema famigliare. Casa Editrice Astrolabio, Roma.
    Vigorelli P. (2009), Il Gruppo ABC. Franco Angeli, Milano.
    Vigorelli P. (2011), L’approccio capacitante – Come prendersi cura degli anziani fragili e delle persone malate di Alzheimer. Franco Angeli, Milano.
    Vigorelli P. (2004), La conversazione possibile con il malato di Alzheimer. Franco Angeli, Milano.
    Bosma, H., M.P. Van Boxtel, R.W. Ponds, P.J. Houx, A. Burdorf, and J.Jolles 2003. Mental work demans protect against cognitive impairment: MAAS prospective cohort study. Exp Aging Res 29: 33-45.
    Bruandet A., F. Richard, S. Bombois, C.A. Maurage, I. Masse, P. Amouyel, F. Pasquier (2008). Cognitive decline and survival in Alzheimer’s disease according to education lLevel. Dementia and Geriatric Cognitive Disorders 25: 74-80.
    Cao, G. and R.L. Prior 2000. Red wine in moderation: Potential health benefits indipendent of alcohol. Nutr Clin Care 3: 76-82
    Morris M.C., D.A. Evans, J.L. Bienias, et al. 2003. Consumption of fish and n-3 fatty acids and risk of incident  Alzheimer’s disease. Arch Neurol 60: 940-46.
    Morris M.C., D.A. Evans, J.L. Bienias, et al. 2002. Dietary intake of antioxidant nutrients and the risk of incident Alzheimer’s disease in biracial community study. JAMA 26:3230-37.
    Morris M.C. 2004. Diet and Alzheimer’s disease: what the evidence shows. Med Gen 6:48.
    Scarmeas N., Y. Stern, M.S. Tang, R. Mayeux and J.A. Luchsinger 2006. Mediterranean Diet and rick of Alzheimer’s disease. Ann Neurol 59: 912-21
    Sabbagh M. 2011 – Risposta all’Alzheimer. Armando Editore, Roma.
    Stern Y., S.M. Albert, M.-X. Tang, W.-Y. Tsai (1999). Rate of memory decline in AD is related to education and occupation: Cognitive reserve?Neurology 59: 1942-1947.
    Wilson, R.S., D.A. Bennet, J.L. Bienias, C.F. Mendes de Leon, M.C. Morris and D.A. Evans 2003. Cognitive activity and cognitive decline in biracial community population. Neurology 61: 812-16.
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