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    I sistemi di valutazione delle risorse umane nella P.A.

    Forse neppure il professore Ichino nel momento in cui ha scelto di verbalizzare e diffondere la sua provocazione era in grado di prevederne  il successo e l’ampiezza di ripercussioni, che certo mettono in luce un problema, l’organizzazione che sta a monte nel pubblico impiego – e, di riflesso, per l’intera pubblica amministrazione, posto che le risorse umane costituiscono il centro focale per il perseguimento degli obiettivi istituzionali e gestionali di questa. Alcuni punti fondamentali del complesso discorso trovano le loro radici nel divenire storico di entità che fortemente caratterizzate da matrici ideologiche dei secoli passati e dalla loro idea di pubblico, bene collettivo e obbligo di fedeltà, si trovano oggi a fare i conti con le declamazioni in tema di analisi dei costi e dei benefici che ben poco spazio lasciano alle altisonanti parole del passato, ed in mezzo corre, il problema centrale delle nuove forme di organizzazione, nonché, gattopardescamente, dell’attrito rappresentato da una mentalità che in primis le Organizzazioni Sindacali contribuiscono a determinare. Se vi sono dei fannulloni nella P.A., è perché a monte non hanno funzionato dei processi: che vanno dalle sanzioni disciplinari, ai sistemi di reclutamento, fino ai sistemi di valutazione.
    Bisogna porre la necessità che l’attenzione sia spostata in alto, sui meccanismi decisionali che determinano a monte le scelte e quale esempio fulcro del problema organizzazione, in questo lavoro si vuole porre l’attenzione sui sistemi di valutazione del personale, sapendo che le  finalità e prescrizioni di questi, ben presto sostituiranno ciò che prima era descritto alla diversa voce di “ordinamento professionale”, contribuendo così a modificare una parte non poco rilevante dell’ordinamento giuridico.
    In breve, ordinamenti professionali che hanno alla loro base, nella recente storia ed in parallelo con la prima privatizzazione del pubblico impiego di cui alla legge 93/1983, il DPR 346/1983, a breve seguito dal   DPR 285/1988. Nel 1999, con la sostituzione delle nove qualifiche funzionali di cui al precedente ordinamento, e con la ripartizione in tre grandi aree del personale, i nuovi ordinamenti professionali del pubblico impiego hanno trovato diversa collocazione nella contrattazione collettiva nazionale di comparto di fine millennio nelle  allegate “declaratorie delle aree” e, in seguito, nelle cosidette “piattaforme professionali”, prive, queste ultime e fino ad ora, di vera cogenza giuridica.
    La storia del pubblico impiego – forse una storia di progressivo demansionamento o dequalificazione,  è fotografata, nel percorso che sta fra le necessità poste dai due DPR degli anni 80, in termini di requisiti culturali richiesti per l’accesso a determinate posizioni, per passare ai diversi concetti espressi con le “declaratorie” delle aree di cui alla  contrattazione collettiva nazionale di comparto del 1999, per giungere oggi ai livelli attesi di cui alle piattaforme professionali. Il percorso mostra inoltre una personalizzazione sempre piu’ evidente delle qualità richieste al pubblico dipendente, come che fosse già dimostrato che sono queste qualità personali e soggettive, rilevate attraverso quali metodologie, della persona pubblico dipendente, a potere fare raggiungere i tanto attesi standard di economicità ed efficienza.
    Riassumeremo il concetto con le parole del pretore di Pisa del marzo 1999, in una fattispecie in cui erano state usate metodologie valutative di tipo psicologico comportamentale da utilizzare quale criterio valido nelle graduatorie di un bando di concorso: <<circola ed anche con un certo (qui non condiviso) successo l'opinione sempre più radicata di una sorta di identificazione fra la persona in sè e la persona/lavoratore, secondo istanze panaziendalistiche, fortemente suggestive, che pretendono di versare nel lavoro quotidiano (spesso solo faticoso e noioso) la complessa personalità dell'individuo, quasi che nella vita aziendale si dovesse esaurire (se non nei tempi, quanto meno nella dedizione) ogni istanza di aspirazione individuale>>. Il tipo di test proposto, introdotto, si dice nella sentenza citata, negli anni ’70 dalle consociate italiane di multinazionali americane, non pone più l’accento sulle vecchie e grossolane “schedature”, ma, rileva il Pretore di Pisa, si tratta ora di domande subdole, con chiave di lettura "psicologica" neppure tanto incomprensibile, come il giudice evidenzia.
    In sintesi, se prima era il possesso di determinati requisiti, culturali e professionali, a consentire l’accesso a determinate qualifiche, ora l’appartenenza ad una certa posizione ordinamentale viene giustificata o ritenuta ottimale ai fini di una efficiente organizzazione, non in base a titoli oggettivi, degradati per l’occasione al rango di <>,  bensì, e attraverso dispendiosi appalti a ditte di psicologi del lavoro, in base a valutazioni di tipo soggettivo sulla misura delle qualità personali possedute dal singolo dipendente. Mentre, ripetiamo, con  i sistemi di valutazione, si tende ad  altro ancora, la < > che sostituisce ed azzera i precedenti <>.
    La descrizione, in queste  piatte-forme, delle qualità richieste ora al  dipendente, è specchio fedele delle reali competenze e professionalità di cui dice di avere bisogno oggi la pubblica amministrazione, poiché in esse vengono espresse le qualità di cui abbisogna oggi l’organizzazione per il raggiungimento dei suoi scopi istituzionali o,  con terminologia oggi consona, per il raggiungimento della sua  “Mission” o “Vision”.
    Un passo ulteriore viene compiuto e vincolato in una camicia di forza tutto il ragionamento quando  la logica conseguenza che ne viene fatta discendere  è che, appartenendo ad una determinata posizione ordinamentale per la quale sono ordinatamente previsti i “livelli attesi”, quei livelli saranno i livelli realmente posseduti dalla persona; ovvero, non quelli che vengono riconosciuti a questa da un titolo di studio oggettivo, ora considerato “esterno” alla prestazione, ma altri, di diverso tipo, che scongiurando il pericolo rappresentato da criteri definiti ora  “automatici” di carriera, si spingono oltre, a valutare, appunto, le caratteristiche intime della persona. Nel meccanismo del tutto poi, come vedremo, il processo si compie ulteriormente, ed i livelli attesi delle piattaforme tornano ad essere le  competenze di cui ai vecchi ordinamenti, competenze formalizzate nel secondo comma dell’articolo 97 della Costituzione, senza piu’ riferimenti, però, ai medesimi ordini di idee e valori che prima ne erano invece il fondamento. Ovviamente, affermare inoltre che  il dipendente ha quelle qualità personali e professionali poiché si trova in quella posizione ordinamentale, è pura tautologia che funzionerebbe a meraviglia  in un mondo incredibilmente perfetto, o in un ordine di cose  che nasce da sé, come in uno schema grafico di analisi economica e  senza recepire la realtà storica, umana e concreta dalla quale esso ordine/disordine discende, senza conoscere  sbagli od errori, per esempio in tema di politica del personale e avanzamenti di carriera ove, nel mondo reale, il possesso di capacità o requisiti culturali, non necessariamente corrisponde alla posizione ordinamentale rivestita.
    La valutazione e l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori
    La valutazione sulle qualità personali, soggettive della persona, nonostante  le declamazioni in termini di efficacia ed efficienza che da queste ne vengono fatte discendere, è immorale e illegittima, ai sensi di  principi sanzionati a diversi livelli costituzionali, non da ultimo dall’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, ripreso all’articolo 112 del d.lgs 196/2003, Codice della Privacy, che discendono direttamente dall’articolo 2 della Costituzione italiana. La declamazione viene fatta passare come d’avanguardia, spregiudicata ai fini di una perfetta equiparazione del pubblico al privato e alle presunte leggi di mercato che governano l’”acquisto” delle risorse.  Senza tacere del rischio che  le “consuetudini” che governano sindacalmente la vita all’interno delle pubbliche amministrazioni, consolidate nel corso di decenni storici e reali, rendano le nuove metodologie, nelle migliori delle ipotesi, una farsa colossale e assolutamente dispendiosa, ove a fronte di quanto dichiarato in tema di scelta o scarto migliori/fannulloni, il rapporto sotteso nella dialettica valutato/valutatore ed in assenza di garanzie normative, porta in sé meramente un rapporto di tipo clientelare. Nella peggiore, un sistema di controllo, come denunciato da una letteratura più che secolare in materia, in una realtà dove la responsabilità delle scelte sfuma nei meandri di un preteso oggettivo-valutativo incriticabile ed infallibile.
    La valutazione delle risorse umane puo’ e deve essere la valutazione delle prestazioni rese, dei risultati conseguiti attraverso obiettivi misurabili in una realtà informatizzata come quella odierna della pubblica amministrazione, consentita dall’ordinamento già  dallo stesso articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori, e nella logica, poiché è principale compito della dirigenza valutare la prestazione lavorativa dei sottoposti; ed un’altra, illegittima, sempre a norma dell’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori  e dell’articolo 112 del Codice della Privacy, che riguarda la valutazione della risorsa umana tout court, ovvero nelle qualità personali da questa rivestita e rilevate attraverso tecniche di dubbia memoria storica e di stringente attualità.
    Al fianco delle parole  <> troviamo statisticamente notevole ed impressionante il numero di volte in cui compare la parola <>. Se, nel presente contesto, con tale termine, ed in assenza di reali garanzie giuridiche, approntate invece nel corso dei secoli dall’ordinamento giuridico, come di fatto si è di fronte ad un sistema basato sulla fallace presunzione di essere in possesso di un sistema, di una metodologia, in definitiva di una mera “tecnica”, capace di mettere a nudo le reali e vere qualità della singola persona, allora, ed in realtà,  continua introduzione significa sistema permanente di valutazione e l’uso di ulteriori vocaboli, quali il termine di <> o <> deve renderci particolarmente cauti ed attenti nello studio ed esposizione del tema trattato. Considerando anche che oggi, mascherati talvolta dietro un’asserita ( e di nuovo dichiarata <>) necessità di formazione, i sistemi di valutazione stanno effettivamente decollando, a livello di prassi come di discussione accademica, nel territorio.
    Cause e finalità della valutazione
    Come sopra osservato, lo studio dei sistemi di valutazione si presenta interessante sotto un diverso profilo: il rapporto dialettico valutato-valutatore implica, ai fini dell’oggettività, una sintesi ulteriore, la dichiarazione di intenti o risultati perseguiti – la mission – in grado di riflettere l’anatomia dell’ ente che ha adottato un suo sistema di valutazione, declinando attraverso di esso gli obiettivi e le strutture che quell’ente istituzionalmente riflette; fornendoci una mappa, una fotografia della sua organizzazione. La premessa da cui si parte, infatti, è che non esistono “modelli” di valutazione validi in assoluto, ciascuna amministrazione adotta le soluzioni che più fedelmente riflettono le proprie caratteristiche funzionali e di obiettivi: l’ente, nell’implementazione di un suo sistema di valutazione, si descrive, poiché la valutazione si pone all’interno di un meccanismo di pianificazione delle risorse umane in grado di esplicitare le competenze necessarie a quella amministrazione.
    La valutazione s’inserisce nel tema del nuovo ruolo della dirigenza; ma non solo, perché sebbene probabilmente quello sia stato il motore propulsore, i sistemi di valutazione sono rivolti ora anche alle posizioni organizzative, ovvero al personale, alle risorse umane. L’Inail, ad esempio, ha ideato ed attuato nel corso del 2004 con costi ingenti, un sistema di valutazione che coinvolgesse tutto il personale assunto a tempo indeterminato, sebbene la prima grande macrostruttura dell’impianto mostrasse una prima bipartizione proprio fra valutazione dei dirigenti e dei professionals da un lato, dall’altro, il restante personale.
    La valutazione del personale è dichiarata tesa a diversi fini: la retribuzione del salario accessorio di cui alle disposizioni del d.lgs. 29/1993, art 7, comma 5 e art. 49 commi 3 e 4 che richiedono che  <<l’attribuzione del trattamento accessorio sia corrispondente alle prestazioni effettivamente effettuate>>; l’offerta formativa, in un’ottica di sviluppo e valorizzazione delle risorse; ma non solo, fra i fini è contemplata anche la razionalizzazione dei sistemi di classificazione e di carriera del personale. In Inail, per esempio, il sistema di valutazione adottato e applicato al personale ha ritenuto valido il punteggio ottenuto in sede di valutazione del potenziale in termini sia di progressioni orizzontali, all’interno della stessa area, e anche da un’area all’altra, dove normalmente vigono ancora procedure selettive di tipo tradizionale, attraverso il concorso pubblico per titoli ed esami, dove il controllo della giurisprudenza amministrativa si fa più sentire, e proprio nell’incontro fra innovazione e tradizione si ha modo di verificare l’effettiva vigenza di tali nuovi sistemi di valutazione. In Inail, il banco di prova rappresentato dalla giurisprudenza, per esempio, non ha retto, essendo stato costretto il Consiglio di Stato ad esplicitare in via d’urgenza e di fronte alla fattispecie in esame, un’ovvieta’, ovvero che concorso pubblico non significa solo legittima riserva agli esterni, ma anche prove selettive di tipo omogeneo.
    Quali sono le cause che hanno dato luogo all’introduzione dei sistemi di valutazione sul territorio e nelle diverse pubbliche amministrazioni? La parola valutazione esprime un concetto che dipende da un giudizio, perché possedendo la facoltà critica, l’essere umano riflette, valuta e giudica come facoltà naturale e propria del suo essere. La parola sistema, coniugatale al suo fianco, implica un’oggettivizzazione della valutazione stessa, una manifestazione di volontà, di conoscenza e di  potere, ove vengono consolidate come vere (eterne ed immutabili all’interno del sistema per il quale costituiscono altrettanti corollari o punti di fede) le determinazioni di giudizio cui si è giunti. Di modo che questi nuovi sistemi valutativi possono dare luogo ad un ulteriore grande problema: mentre per ognuno è sempre aperta la porta per migliorare (studiando di più, lavorando meglio, producendo di più nel corso del servizio, ecc.), viceversa, un giudizio sulle qualità personali, intime del candidato, è tendenzialmente immutabile, pena la fallacia dei sistemi stessi.
    La parola valutazione compare già nella lettera dell’articolo 8 della legge 300/70 – Norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori: la norma pone una serie di divieti fra cui quello di effettuare indagini (il cui fine ultimo è sempre un giudizio) “non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale”. In un certo senso, si potrebbe dire, è stata proprio la norma volta primariamente allo scopo di vietare al datore di lavoro indagini su fatti non rilevanti ai fini della valutazione del lavoro ad aprire la porta, e  inconsapevolmente con la parola “attitudine”, ai sistemi di valutazione delle risorse umane. Ma il salto logico, concettuale e morale, resta  evidente: dal lavoro come attività in sé considerata, al giudizio personalistico sulla risorsa – che è ancora una persona umana, ed in quanto tale soggetto di diritti. Nel 2003, il legislatore, con il codice della privacy, consente al datore di lavoro di trattare i dati utili a vericare i risultati conseguiti: si veda in particolare l’articolo 112 lettera “O” del d.lgs. 196/2003. Già nel vigore della legge n.° 93/83 sono stati previsti strumenti per collegare quote variabili della retribuzione, il salario accessorio, alla produttività, non ad altro, di molto piu’ complessa valutazione e, soprattutto, di illegittima estrapolazione e detenzione nei contesti del lavoro, sia esso pubblico o privato, comunque sottoposto alle regole del diritto.
    Il vecchio ed il nuovo fra rigidità e flessibilità
    Il problema della valutazione del lavoro è antico quanto quello del lavoro, nelle due diverse fattispecie di lavoro dipendente e di lavoro autonomo; il problema sorge quando dalla valutazione di un’attività, di una prestazione, si giunge a valutare le qualità personali del prestatore d’opera.
    Qui è direttamente in gioco il rapporto personale intercorrente fra valutato e valutatore, senza ulteriori riferimenti prima considerati oggettivi od esterni alla prestazione, oggi decaduti al rango di “automatici”, non volendo neppure tacere dei sempre denunciati interessi concreti che possono sottostare a quel rapporto, non necessariamente verificabili o corrispondenti con il fine ultimo di un bene ritenuto superiore ai titolari del rapporto medesimo.
    Alla più che scontata domanda di chi  chi valuta il valutatore, si è posto da subito, in una società democratica di livello maturo, il problema dell’eccessiva discrezionalità del superiore – così che il pericolo scongiurato, l’”automaticità” dei criteri tradizionali (anzianità e titoli di studio), supposti ora non in grado di rilevare il merito, o meglio la produttività, potesse rientrare dalla porta. Era dunque prima necessaria un’opera di demolizione: sono state coniate le parole “criteri automatici” in riferimento ai vecchi criteri fondati sul titolo, considerati ora “esterni” alla prestazione, quasi che la prestazione avesse subito un processo di oggettivizzazione tale da non abbisognare piu’ di alcuna qualità personale, quasi come potesse esistere la prestazione per la quale la persona che ne è il soggetto che la compie, è anche e paradossalmente  “esterno” ad essa, nel perseguimento di un mito fallace: la perfetta e totale corrispondenza di prescrizioni astratte con l’invero molto più complessa dialettica concreta e reale, in una sorta di briglia o camicia di forza, che in realtà con le leggi del libero mercato, così ideologicamente affini a quelle della altrettanto  libera intraprendenza privata, come possibilità lasciata ad ognuno di migliorare la propria posizione con l’impegno e l’ingegno, hanno ben poco a che fare.
    Nelle numerose e sempre più cospicue produzione letterarie sul tema troviamo ora descritti alla voce di criteri automatici di carriera ciò che prima era riassunto con diversi termini che dall’anzianità di servizio giungevano al titolo di studio, ma  l’anzianità considerata esclusivamente, ed in modo invero molto vuoto, come mero trascorrere del tempo, è “automatica”, o priva di senso, diversamente implica, nell’impiego, il conseguimento di una qualche abilità o professionalità; il titolo di studio, anche, e a maggior ragione, solo considerato in un modo davvero vacuo, è “automatico”, implicando a monte delle scelte e dei costi, e a valle, l’acquisizione di una cultura e di una conoscenza.
    Per comprendere il riferimento all’aggettivo “automatico” che fanno i sostenitori dei nuovi sistemi di valutazione del personale, è forse utile rifarsi a  tutta quella serie di attestati, aggiornamenti e qualifiche professionali attribuite direttamente dalla P.A. ai suoi dipendenti in vista delle progressioni, per comprendere il perché di così bassa stima? Con il rischio che quest’ultimo sistema, dietro le declamazioni piu’ estreme ed abusate di analisi economica e dominio insindacabile delle tre E, non diventi anch’esso la parodia piu’ assurda e dispendiosa di cio’ che gia’ vi è stato e dello scempio spesso compiuto, in una farsa gattopardesca di miti mai smentiti in tema di pubblico impiego, contro cui, dal caldo degli ombrelloni estivi, si sollevano  proteste scandalistiche, si costituiscono le ennesime commissioni, si fanno proposte di legge.
    La criticità, per i nuovi sistemi di valutazione, si sposta  sul tipo di relazione che intercorre fra valutato e valutatore, divenendo nei contesti concreti un problema di identificabilità e identità di quest’ultimo, il valutatore, in buona sostanza la legittimità o compatibilità delle nuove statuizione sul lavoro con l’ordinamento giuridico, quale specchio dei valori riconosciuti degni di tutela in un dato momento.
    La comparsa, invero non nuova, della psicologia economica–aziendalistica, non nuova nel mondo del lavoro neppure in ambiente italiano, va collocata in questo contesto, nella sua presunta capacità, come scienza, di porre il ponte di collegamento oggettivo e perciò neutrale, fra valutazione della prestazione, consentita dall’ordinamento, e valutazione delle qualità personali, fino a prova contraria non consentite dall’ordinamento – e proprio in rispondenza ai principi fondamentali acquisiti nel corso dei secoli e che si rischia di buttare via, principi che pongono la dignità dell’essere umano quale fine supremo da tutelare e conseguire, fine, e mai mezzo (o risorsa). Tale metodo e  forma è ovviamente molto pericolosa se, aumentando il grado di non identificabilità del valutatore, è volta nel contempo  a determinare in capo alle valutazioni espresse un’aurea di verità ed intangibilità che, come è accaduto tante volte nella storia dell’uomo, sono la premessa per l’esercizio arbitrario del potere nudo e crudo. Con l’ulteriore necessità di procedere con estrema attenzione, poiché il fine che viene declamato è positivo (economicità, efficienza, ecc.).
    Valutazione delle risorse e analisi economica
    Un notevole passo è stato compiuto con il riconoscimento e la declamazione sull’aleatorietà e parzialità degli indicatori quantitativi di risultato, quando si iniziò a coniugare le abusate parole di efficienza ed efficacia con quelle di qualità del servizio richiesto. Di lì alla creazione di un Modello (talvolta Catalogo) delle Competenze (sempre con la maiscula), ulteriori movimenti sono stati compiuti, fra questi stralciamo:
    <<Il Modello delle competenze non è di per sé un sistema di valutazione delle prestazioni; esso è considerato dalla consulenza come un metodo globale di gestione delle risorse umane>>. Allo stesso modo, nella intranet aziendale Inail, troviamo: <<Il modello delle Competenze INAIL costituisce la base del sistema di Valutazione e di sviluppo delle Risorse Umane>>.
    Il momento definitorio è però carente, pressoché assente ed invano voi troverete una chiara definizione della nuova voce <>:  possiamo supporre si tratti di un insieme di pensiero definito da soggetti capaci di coniugare le diverse tecniche dell’economia e della psicologia del lavoro, applicate nell’organizzazione di una struttura amministrativa, ma è chiaro che proprio perché con queste nuove tecniche si omette il riferimento al quadro normativo, giudicato ormai del tutto inefficiente, allora tanto più andrebbero apportate all’interno del sistema stesso le chiavi delle forme di garanzia, primariamente nella descrizione concreta e puntuale della voce <>, uno psicologo del lavoro istruito sui nuovi canoni da perseguire, non necessariamente portatore della visione ampia e garantistica di un ordinamento giuridico consolidatosi nel corso dei secoli.
    L’analisi compiuta segue molto da vicino le esposizioni verbali in tema di libero mercato, e chiunque ha un minimo di orecchie per queste, le intende subito:
    <fuori dalla porta e nel corridoio, oppure essere tenute nascoste o, al contrario, essere ricondotte a modalità più mature attraverso un metodo di valutazione, un salto di civiltà che faccia emergere ciò che è implicito e discrezionale attraverso la formalizzazione di un sistema condiviso.>>
    Ovviamente qui alle parole di scambio (le azioni di vendere e comprare in un quadro di riferimento nel mondo) si sovrappongono quelle di valutare. Siamo venduti e comprati sul piano dei rapporti umani, in relazione al nostro abbigliamento, ai gusti dei nostri vicini, alla nostra cultura e amabilità. Qualità di cui non ci spoglia all’interno delle organizzazioni e corporazioni. La scelta autodefinitasi matura è quella di non tenere fuori dalla porta tale complesso “sistema” di compravendita delle simpatie e doti umane, attraverso la formalizzazione di un sistema condiviso. Il concetto di libero e spontaneo, parrebbe soffrirne, e qualcos’altro ancora: l’attenzione va decisamente spostata allora sul termine “condiviso”, di nuovo in un’ottica di ideologia economica, ove l’informazione diviene un nodo centrale, nella misura in cui la sua assenza o presenza determina nei fatti la possibilità stessa di esistere di un effettivamente libero mercato.
    La valutazione è condivisione, ma anche stile (di direzione): <>
    Gli odierni sistemi di valutazione nella pubblica amministrazione, fondati sull’analisi economica e sulle teorie del management moderno, non si limitano alla valutazione della prestazione, ma intendono indicare il < >. Nasce il nuovo concetto di competenza: la valutazione di tipo quotidiano ed informale, quella che in gergo comune è la complessa dialettica dell’interagire umano su cui ogni scienza che si rispetti può indagare entro limiti molti ristretti, diviene valutazione formale attraverso un processo di soluzione e sintesi ulteriore: l’esplicitazione della missione e di un orientamento strategico. Nel mercato dei rapporti di lavoro non ogni caratteristica, qualità o difetto rileva, ma solo quelle definite utili (dall’entità superindividuale e grossolanamente individuata ed individuabile della consulenza) ai fini del raggiungimento degli obiettivi strategici e gestionali.
    Un tempo esisteva il principio di competenza d’autorità definita, ovvero una sfera di potere delimitata dalla legge o dai regolamenti, cui seguiva quello di gerarchia (oggi definito rigido) ed il “metodo di valutazione”, si dice oggi, consisteva per la pubblica amministrazione nel continuo richiamo e riferimento ai valori collettivi del servizio pubblico e all’insieme dei valori etici e legali disciplinati dal diritto amministrativo. Questo tipo di vecchia “valutazione” (ma allora si trattava di criteri guida e principi fondamentali dell’ordinamento giuridico) oggi viene descritta così:
    <ciascuna amministrazione.>>
    In conclusione di questa prima parte dedicata ai sistemi di valutazione in generale, non possiamo che dire che qualora lo schema predisposto fosse realmente in grado di fornire utili risultati, andrebbe premiato e dovremmo dolerci del fatto che esso non sia stato inventato prima. Nel prossimo paragrafo vedremo in concreto cosa è stato, a cosa è servito, e quali il livello di tecniche metodologiche applicate, in un particolare Sistema di Valutazione e Sviluppo delle Risorse Umane in un ente, l’Inail, assolutamente oneroso a detto dello stesso, nel corso della tornata contrattuale sfociata poi nei bandi del 2005. Il tutto per ricordare un vecchio adagio di un mago dell’analisi economica, il quale diceva di vedere (analisi dei costi e dei benefici) se il gioco valeva la candela per giudicare il fine ultimo delle scelte, e dove ai costi  ci si può e ci si deve riferire anche in termini di vita umana.
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