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    “Il mio anno senza shopping”

     LA RIVOLTA di Judith cominciò una sera d’inverno del 2004, dentro una carrozza della subway di New York annebbiata dal vapore che saliva dai panni inzuppati. Permesso, scusi, scende, prego, avanti, Judith dovette trascinare pacchi, sacchetti, borse accumulati in un giorno di frenetico shopping a Manhattan.

    Forse furono il vapore, l’odore di umanità compressa, la mischia dei sacchetti ma in quel momento a Judith Levine venne la nausea e con la nausea, una decisione potenzialmente più catastrofica per la "Civiltà Occidentale" di un attacco terroristico: la decisione di non comperare più. Di disintossicarsi dalla sindrome dello "shopping".

    Per un anno, Judith e il fidanzato Paul si giurarono di non comperare più nulla che non fosse strettamente necessario. Saldarono e distrussero le armi più insidiose del nemico, le carte di credito. Accettarono, e offrirono, pranzi e cene soltanto in casa.

    Un calvario di stazioni quotidiane per scalare il Golgota di una società fondata sui consumi dell’inutile e del superfluo, alta quattro mila e cinquecento miliardi di dollari soltanto negli Stati Uniti, quattro volte l’intero prodotto interno italiano. Ci riuscirono e lei ne ha ricavato il diario straziante, "Not Buying it, a year without shopping", non compro più (ma anche "non ci casco più") di una creatura aliena precipitata in un mondo nel quale la sola fede indiscussa e universale è quella che accomuna i favolosi shopping centers in emirati musulmani agli shopping malls giudaico cristiani. Non avrai altro Dio che il consumo.

    Smettere di comperare cianfrusaglie inutili, gingilli, gadgets che saranno acquisiti per impulso del momento e poi dimenticati in un cassetto, stuff, roba, come si dice negli Stati Uniti è ancora più difficile che smettere di bere, di fumare, o di imbottirsi di cibarie, perché l’acquistare è un comandamento, non un vizio.

    Psicologi e psichiatri ormai paragona il tossico da shopping, definito infatti "shopaholic", all’alcolista, al tabagista, al ghiottone, al giocatore. Ma mentre predicatori laici e religiosi lanciano anatemi contro la droga o il fumo, il consumare viene incoraggiato da 400 miliardi di dollari di pubblicità spesi ogni anno soltanto negli Usa. Un salvatore invocato dallo stesso presidente Bush quando, nelle cupe settimane dopo il massacro di Manhattan, invitò i patrioti non a imbracciare lo schioppo ma a caricare la carta di credito. Nessun dato economico allarma i governanti più di una flessione nel consumer spending. La signora che per un anno ha fatto il voto di castità consumistica si è sentita una traditrice della patria, una renitente alla leva.

    Soprattutto, si è sentita mortalmente depressa. Rinunciare al superfluo non è impresa agevole perché i confini tra il superfluo e il necessario sono, in una società fondata sullo shopping che comunque lavoro e stipendio di altri, molto labili. Le è stato facile rinunciare a pasticcini e a scarpe nuove, a Cd e a quelle evidenti trappole per piccioni che sono i "saldi", nei quali la vittima crede di risparmiare comperando di più, dunque spendendo. Ma superflui sono anche il biglietto del cinema, la cena al ristorante quando si può benissimo mangiare a casa, la cera per gli scii e la settimana bianca. Tutto è superfluo e niente lo è, in un mondo nel quale sono gli acquisti, il consumo, le cose a definire chi sei e non viceversa.

    "Chiamarmi fuori dal mondo dei consumi – scrive Judith Levine – ha comportato vivere in un universo parallelo e non comunicante con quello dei miei amici e delle mie amiche, escludermi da una vita sociale che ormai si esprime attraverso il proprio rapporto con gli acquisti". Let’s go shopping! Andiamo a fare acquisti è il grido di guerra che mobilita madri e figli, nonni e nipotini, ricchi e poveri, grandi accumulatori di piccole carabattole, ciascuno nei propri limiti.

    Era diventata un’aliena, una marziana, una paria. Peggio, una pericolosa sovversiva, anche se Judith, consulente finanziaria di successo, tutto poteva essere meno che una nemica della società. Chi rinuncia e non possiede carte di credito e pretende di pagare tutto in contanti o con assegni è implicitamente sospetto: non vuole lasciare tracce? Non ha sufficiente credito per ottenere il tesserino di plastica? Che cosa vuole nascondere? Esiste davvero, quella donna, o è una finzione? Il non consumatore tende a essere visto come una non persona, una conferma alla logica neo cartesiana del mercato opulento, "acquisto ergo sum", chi non fa shopping non esiste.

    Passata la fase dell’euforia iniziale, quando sul metrò Judith poteva osservare con senso di superiorità morale le altre signore (e signori) che si trascinavano i sacchi dei grandi magazzini come l’ex fumatore guarda il miserabile che ancora tira, vissuta poi con il fidanzato la cerimonia catartica delle sue (22) carte di credito tagliuzzate e distrutte, il dubbio della propria anormalità si insinua. Un conto è trascorrere un giorno senza fare acquisti, per sentirsi "giusti" e poi ricominciare il giorno dopo, come una forma di digiuno transitorio e igienico. Un altro è dire addio per sempre a quella attività che occupa poco meno del tempo dedicato al lavoro, secondo le statistiche, (80%) e infinitamente più di quello dedicato al sesso, week end compresi (venti volte di più).

    Un anno, ha resistito a pane e acqua, prima che la nausea passasse e il digiuno potesse più della promessa. Un paio di scarpe troppo scalcagnate, una camicetta irrimediabilmente lisa, l’ultimo collant smagliato l’hanno corrotta. Quando le è stata recapitata a casa l’ennesima carta di credito che le offriva, la implorava, di ritornare tra i patrioti dello shopping, l’ha afferrata e l’ha usata in un grande magazzino. Basta un bicchiere, sanno tutti gli alcolisti, per riprecipitare e anche lei si è rituffata. Anzi, ci ha scritto sopra un libro, sperando che molti consumatori lo acquistino. Con carta di credito.

    Autore: Vittorio Zucconi
    Fonte: http://www.repubblica.it

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