La demenza è una malattia del cervello che comporta la compromissione delle facoltà mentali (memoria, ragionamento, linguaggio, ecc.) tale da pregiudicare la possibilità di vita autonoma per l’individuo che ne è colpito.
Come è risaputo, dalla demenza non si può guarire, ma è possibile attraverso diversi interventi riabilitativi rallentare la progressione dei deficit cognitivi e funzionali.
La riabilitazione può essere efficace sia sul piano cognitivo che su quello comportamentale portando in alcuni casi, oltre al rallentamento della progressione del deficit, anche a dei piccoli miglioramenti.
La letteratura recente suggerisce che affiancare ad una terapia farmacologica un intervento di riabilitazione cognitiva permette di aumentare le possibilità di riuscita dell’intervento stesso nel miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
Del resto, negli ultimi anni si assiste da parte dei servizi a richieste sempre più numerose di interventi che impieghino le terapie cosiddette espressive, non farmacologiche, in progetti preventivi, riabilitativi e terapeutici. La terapia farmacologica, infatti, pur essendo necessaria, determina molti effetti collaterali che in alcuni casi appesantiscono una condizione fisica generale già difficile o compromessa da altre patologie organiche.
Dato l’accento su modalità di relazione prevalentemente pre-verbali e non verbali, le terapie espressive sono fortemente indicate per la prevenzione e la cura delle problematiche e dei disturbi che insorgono in età avanzata (demenze di varia natura, disturbi del comportamento, patologie psichiatriche), favorendo allo stesso tempo sensibili diminuzioni del carico farmacologico che viene somministrato al paziente.
Per la persona con diagnosi di demenza, esistono interventi riabilitativi specifici per i diversi stadi di malattia.
Esempio interessante, nei casi di deterioramento cognitivo medio-grave, è sicuramente la “terapia della bambola”.
Si tratta di una terapia non-farmacologica molto innovativa, che facilita il rilassamento e diminuisce gli stati di tensione nell’anziano, determinando in alcuni casi un miglioramento del suo benessere e della sua qualità di vita.
Tale approccio consiste nel presentare al paziente una bambola con caratteristiche particolari (dimensioni circa 50 cm, peso che simula quello di un bambino vero di quell’altezza e con quelle caratteristiche fisiche, braccia spalancate che invogliano all’abbraccio e gambe mobili, sguardo laterale e occhi grandi, materiale morbidissimo, naturale e lavabile) e lasciare che questi vi interagisca in momenti particolari della giornata e comunque con più di due ore continuative.
Nella maggior parte dei casi l’anziano se ne prende cura rimettendo in moto tutta una serie di attività e competenze relazionali che sembrava aver perso.
Il clinico dovrà poi fare un periodo di osservazione di 15 giorni per monitorare l’andamento dell’interazione in cui dovrà compilare delle schede.
In questo modo egli potrà evidenziare la presenza e la frequenza di comportamenti specifici che l’anziano mette in atto nell’interazione con la bambola: l’accetta, la ricerca, le parla, la stringe al petto, la dondola, la accudisce, le sorride, sorride verso altri, canta, ci gioca, la abbandona, ricerca il consenso, le accarezza i capelli, la tiene senza muoverla.
Potrà inoltre segnalare se il contatto risulta continuo oppure sfuggente.
Bisogna considerare il ruolo che l’oggetto bambola occuperà all’interno di una relazione affettiva con il paziente. Esistono infatti diverse possibilità:
- il paziente riconosce la bambola solo come oggetto inanimato e quindi lo manipola parzialmente per poi dimenticarlo non considerandolo come elemento relazionale;
- il paziente accudisce l’oggetto bambola riconoscendolo come un bambino a tutti gli effetti e accudendolo più o meno intensamente durante i vari momenti della giornata;
- il paziente può alternare momenti di forte accudimento nei confronti dell’oggetto bambola e momenti di disattenzione o indifferenza o rifiuto.
La bambola terapeutica nasce in Svezia alla fine degli anni '90 da un’idea della psicoterapeuta Britt Marie Egedius Jakobsson, che la pensa e la realizza per suo figlio, affetto da autismo.
Da allora, in Europa, le bambole create per stimolare l'empatia e le emozioni dei bambini e degli adulti diventano, in ambiti di cura e terapia, oggetto simbolico nella relazione di aiuto, con le seguenti funzioni terapeutiche:
- modulazione di stati d'ansia e di agitazione e delle loro manifestazioni sintomatiche come aggressività , insonnia, apatia o wandering;
- sensibile riduzione del ricorso ai sedativi;
- riduzione di condizioni di apatia e depressione;
- maggiore risposta ai bisogni emotivi-affettivi che, malgrado il deterioramento cognitivo, rimangono presenti ma non sono più soddisfatti come in età precedenti;
- ostacolo al deterioramento di alcuni abilità cognitive e sostegno all'utilizzo di prassi motorie che fungono da stimolo delle abilità residue.
La bambola, quindi, è una vera e propria terapia e come tale va somministrata sempre da tutti i prestatori di cura, a casa o in struttura, altrimenti il suo funzionamento potrebbe essere compromesso.
L'impiego di questa terapia aiuta gli operatori nei loro compiti assistenziali e risulta molto utile anche per i familiari che seguono i loro cari a domicilio, proprio perché è facilmente applicabile sia in ambito residenziale che domiciliare.
In conclusione, viste le sue potenzialità, la “terapia della bambola” può essere considerata un metodo integrativo, piuttosto che alternativo, ma anche uno strumento di riabilitazione in grado di aiutare a ridurre e compensare le compromissioni funzionali degenerative.