Sempre più spesso ci imbattiamo in sigle e termini che a molti di noi suonano come totalmente nuovi come “LGBT”, “transgender”,” cisgender” ed espressioni come “identità di genere”, “orientamento sessuale”.
Ma quanto siamo pronti ad usare propriamente queste espressioni?
Quanto siamo preparati e documentati come psicologi (e prima ancora come genitori ed esseri umani) ad accogliere e relazionarci con tante opzioni, sempre esistite, ma oggi manifestate?
E quanto questo nostro approccio può allontanarci o avvicinarci rispetto al vissuto di chi ci circonda?
Includere, escludere, accettare, accogliere, anche di questi termini sentiamo parlare, li usiamo ma senza comprenderne forse veramente l’essenza: “includere” o “escludere” chi?
È già questo uno stigma, un raggruppamento, come “accettare” o “accogliere”, che ci fa pensare a “l’altro, il diverso”.
Non possiamo convivere con questi sentimenti e pensare di ignorare quelli di chi, molto spesso in giovane età, si trova a dover far i conti con la propria identità come se fosse una nemica, una gabbia in cui vive la trappola del proprio essere in solitudine.
Non possiamo ignorare (o peggio giudicare) i sentimenti di chi si trova a dover far i conti con il proprio desiderio di genitorialità, ma senza il conforto ed il supporto della società in cui vive, che fatica spesso ad accettare famiglie omogenitoriali (“Le famiglie omogenitoriali sono le realtà familiari nelle quali almeno un adulto, che si definisce omosessuale, è il genitore di un bambino o di una bambina” Gross-2003) e famiglie poligenitoriali (in cui a genitori biologici si aggiungono le figure dei genitori affettivi/n.d.r.).
Spesso non conosciamo a fondo la realtà di cui parliamo, ma la giudichiamo, ne condizioniamo o regolamentiamo le scelte e definiamo cosa sia da accettare, da includere o da escludere e stigmatizziamo in maniera diretta od indiretta bambini ed adulti intenti a vivere serenamente il loro contesto di vita.
Qualcosa non funziona in questo processo: le abilità relazionali e genitoriali non dipendono dal genere di appartenenza, né dall’orientamento sessuale. Una persona può esser affidabile o meno indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e dalla propria identità di genere.
E può esser un genitore “sufficientemente buono” indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e dalla sua identità di genere.
L’impegno della comunità in coerenza con i dati
Come psicologi, abbiamo l’obbligo morale di formarci adeguatamente su questi temi, di creare progetti per tutti e per ognuno, di normalizzare ciò che per la società ancora normale non è. Ricordandoci che il primo cambiamento lo dobbiamo fare in noi stessi, affrontando la nostra omofobia, superando la nostra visione binaria.
Come psicologi nella relazione di aiuto dobbiamo considerare il minority stress che vive chiunque si trovi ad esser stigmatizzato ed identificato come minoranza, offrire spazi di confronto e normalizzazione, educare ed educarsi alla diversità, contemplare e favorire narrazioni diverse da quelle consolidate e radicate.
Le abilità genitoriali nulla hanno a che vedere col genere di appartenenza. E questo è un dato di fatto ampiamente dimostrato.
Tuttavia, troppi stereotipi ancora condizionano il livello di accoglienza ed integrazione di famiglie omogenitoriali: la necessità per un figlio di un padre ed una madre biologici, la convinzione che dietro l’orientamento sessuale ci sia una “malattia” che renda meno affidabili genitori omosessuali, la convinzione che le relazioni omosessuali siano meno stabili e più promiscue di quelle eterosessuali, o ancora, che figli di persone omosessuali siano a maggior rischio di problemi psicologici o di essere influenzati nell’orientamento sessuale dall’esempio genitoriale.
Falsi miti smentiti da numerose ricerche scientifiche svolte anche in ambito internazionale che hanno dimostrato che i figli di genitori gay o lesbiche si sviluppano emotivamente, cognitivamente, socialmente e sessualmente esattamente come i bambini che hanno genitori eterosessuali.
Ciò che conta perché si sviluppi un attaccamento sano è, come sempre, “la connessione psicologica duratura tra gli esseri umani” per citare direttamente Bowlby, e deriva da prossimità, accudimento, empatia, non avendo nulla a che vedere con l’orientamento sessuale delle figure coinvolte. Un figlio è sempre un figlio, depositario di amore ed attenzioni, così come un genitore è sempre un genitore per la sua stessa funzione genitoriale e non per il legame biologico.
«Non esiste alcuna prova scientifica che l’essere dei buoni genitori sia connesso all’orientamento sessuale dei genitori medesimi: genitori dello stesso sesso hanno la stessa probabilità di quelli eterosessuali di fornire ai loro figli un ambiente di crescita sano e favorevole. La ricerca ha dimostrato che la stabilità, lo sviluppo e la salute psicologica dei bambini non ha collegamento con l’orientamento sessuale dei genitori, e che i bambini allevati da coppie gay e lesbiche hanno la stessa probabilità di crescere bene quanto quelli allevati da coppie eterosessuali.
È nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale». (American Psychological Association)
E anche l’American Association of Child and Adolescent Psychiatry ribadisce l’assenza di rischi neuropsichiatrici nelle famiglie omogenitoriali:
“La base su cui devono reggersi tutte le decisioni in tema di custodia dei figli e diritti dei genitori è il migliore interesse del bambino […] Non ci sono prove a sostegno della tesi per cui genitori con orientamento omo o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio, a confronto con orientamento eterosessuale.
Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato a una patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le
probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo o bisessuali, messi a confronto con genitori eterosessuali, non depongono per un maggior grado di instabilità nella relazione genitori-figli o disturbi evolutivi nei figli”.
Ancora, in una ricerca condotta su 14.000 madri di bambini nati in un anno in Inghilterra, un campione di 19 famiglie costituite da una coppia lesbica è stato confrontato con un gruppo di 74 famiglie eterosessuali e con 60 madri single.
Anche in questo caso non è stata rilevata nessuna differenza rispetto ai seguenti parametri: coinvolgimento emotivo, soddisfazione materna, frequenza dei conflitti, supervisione dei figli, comportamenti dei bambini osservati dai genitori e dagli insegnanti, autostima e presenza di disordini psichiatrici (Golombok et al., 2003).
Ulteriori studi hanno indagato le possibili criticità di sviluppo di confusione in ambito di orientamento sessuale, autostima, depressione, ansia, performance scolastiche, relazioni ed autonomia su un campione di più di 12.000 adolescenti, con due madri unite da un legame matrimoniale, constatando l’assenza di differenze sistematiche con i pari (Wainright, Russell, Patterson, 2004).
«Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori […] Nonostante le disparità di trattamento economico e legale e la stigmatizzazione sociale, trent’anni di ricerche documentano che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli e che il benessere dei bambini è
influenzato dalla qualità delle relazioni con i genitori, dal senso di sicurezza e competenza di questi e dalla presenza di un sostegno sociale ed economico alle famiglie».(Pawelski et al., 2006)
Piuttosto ciò che emerge è che la stigmatizzazione diretta sui bambini o indiretta sui genitori, costringe ad un confronto prematuro e costante contro la discriminazione sociale. Ed è questo un punto su cui come comunità bisogna lavorare, combattendo contro stereotipi e fobie che possano danneggiare gli altri.
Le coppie omosessuali non devono esser stigmatizzate per il loro orientamento sessuale, né vivere la frustrazione della negazione di un desiderio di genitorialità, afflitte da forme di minority stress che possano ripercuotersi sulla stabilità dei legami familiari. E
conseguentemente verrà tutelata la stigmatizzazione e la discriminazione sui figli di coppie omogenitoriali.
Stacey e Biblarz nei loro numerosi e decennali studi incentrati sulle diverse aree di sviluppo dei figli di coppie omogenitoriali, propongono infatti di considerare l’omofobia e le discriminazioni i soli motivi per cui l’orientamento sessuale dei genitori può avere influenza sui figli.
Si pensi a quanto possa influire sullo sviluppo del Sé di un bambino, il sentirsi emarginato dal gruppo dei pari, escluso dai contesti sociali apparentemente per l’orientamento sessuale dei suoi genitori, ma di fatto per una fobia sociale, che stenta ad accettare contesti diversi da quelli normativi a cui è abituata, che approva e sostiene visioni stereotipate, temendo il confronto con situazioni nuove e diverse, riproponendo scenari già vissuti non più di qualche anno fa, per i figli dei genitori separati, giudicando i genitori come buoni o cattivi in base alla stabilità dei loro rapporti di coppia.
Le coppie omosessuali hanno dinamiche sovrapponibili a quelle delle coppie eterosessuali sia in termini di impegno reciproco che di stabilità del legame stesso, con in più una maggior propensione ad una divisione paritaria dei compiti domestici, come dimostrano svariati studi (Blumstein, Schwartz, 1983; Carrington, 1999; Green, Bettinger e Zacks, 1996; Barbagli e Colombo, 2007; Coltrane, 2000; Kurdek, 2006; Solomon, Rothblum e Balsan, 2005).
Anche per quanto riguarda l’organizzazione del potere e della presa di decisione nelle coppie, le ricerche evidenziano come le coppie omosessuali siano più egualitarie e paritetiche (Peplau e Cochran, 1980) e come questa equità sia associata a dinamiche della coppia più funzionali: una più soddisfacente risoluzione dei conflitti e un minore tasso di violenza fisica/psicologica
(Borghi, 2006).
La situazione in Italia
Per una coppia omosessuale che intenda vivere l’esperienza della genitorialità in Italia, il percorso è tutto in salita.
Le decisioni dello Stato Italiano sembrano infatti dettate da pregiudizi e dogmi senza alcuna conferma scientifica, dato che gli ultimi vent’anni di ricerche si schierano a favore dell’omogenitorialità (Patterson 1994, 2001; Wainright & Patterson, 2008; Gartrell et al., 1996, 1999, 2000, 2005).
Col DDL Zan ci si stava avvicinando alla più illuminata gestione di molti ed evoluti Paesi, di normatività delle coppie omosessuali. Al momento, però, il decreto resta in stand-by.
E restano interdetti gli accessi a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) autologa o eterologa per le coppie omosessuali, ed alla gestazione per altri (GPA) anche per le coppie etero in cui uno dei due genitori non possa dare il suo contributo biologico alla nascita del bambino, oltre che per le coppie omosessuali.
Il riconoscimento della liceità di questa genitorialità, si applica, purtroppo, in molti casi anche a famiglie già esistenti, dimenticando la tutela dei diritti dei minori sia da un punto di vista legale che psicologico.
Si susseguono così, gli appelli ai sindaci, alle istituzioni, ai tribunali per il riconoscimento di diritti che non sono legati tanto ad aspetti legali, ma quanto ad aspetti emotivi e di benessere.
L’inarrestabile lavoro di associazioni e privati, ma anche di numerosi personaggi pubblici direttamente coinvolti sta accendendo sempre più i riflettori sul tema del diritto al riconoscimento della identità delle coppie omosessuali e delle loro famiglie.
Articolo scritto dalla dott.ssa Giusy Vanni, tutor al Master breve in Psicologia Perinatale, organizzato da Obiettivo Psicologia
Bibliografia
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