Li chiamano “effetti collaterali” della guerra:o “difficoltà umanitarie”: sono i civili che subiscono in prima persona le conseguenze devastanti dei bombardamenti o degli attacchi terroristici. Uccisi, feriti, costretti a fuggire per cercare scampo altrove con il terrore negli occhi, o a rintanarsi nei rifugi.
E’ facile ignorarli quando si combatte da una parte e dall’altra una guerra senza esclusione di colpi. Al massimo si discute, senza troppa convinzione, se le sofferenze dei civili siano “proporzionate” all’evento in corso, o tra le due parti belligeranti – ben sapendo che non ha alcun significato parlare di proporzione – lasciando alle organizzazioni umanitarie il compito di quantificare il danno (numero di morti, feriti, sfollati, senza tetto).
Poi, forse, a guerra finita, saranno ricostruiti i ponti, le case, le strade, persino meglio di com’era prima, anche se nulla sarà più come prima. Per ricominciare a vivere bisognerà trovare un senso a tutto quello che è accaduto, sanare le ferite invisibili, ricomporre la paura, l’odio, il dolore – soprattutto il dolore – ad una dimensione accettabile.
Non è cosa facile. Pur se il dramma è collettivo – come nel caso dei profughi palestinesi, della gente di Galilea sotto il tiro dei razzi Hezbollah, o della popolazione del sud del Libano stretta tra le milizie Hezbollah e il fuoco israeliano, ognuno poi lo vive diversamente. Le capacità di “resilienza”, ovvero di resistenza al trauma, sono individuali.
Essere coinvolti in situazioni critiche per la sopravvivenza propria o altrui, direttamente e indirettamente (attraverso la visione di immagini o filmati che generano paura, orrore, senso di impotenza), può avere gli stessi effetti di una bomba a deflagrazione ritardata ed evolvere, anche a distanza di mesi dall’evento, in una forma più o meno grave di disturbo da stress post-traumatico (ricordi improvvisi a flash back, accompagnati da emozioni dolorose e dal rivivere il dramma, ridotta capacità di interazione emotiva, ansia e ipervigilanza, come se si vivesse costantemente in pericolo, paura di spazi aperti ma anche luoghi chiusi, abuso di droghe o alcol, depressione o suicidio). “Popolazioni consapevoli del rischio di una guerra, di attentati, o di calamità naturali, si adattano meglio di chi è inconsapevole o rifiuta di accettare il problema – sostiene Roberto Cafiso, psicoterapeuta specialista in Psicologia dell’Emergenza – anche se non si mai preparati abbastanza.
Dare aiuto psicologico alle popolazioni colpite è meno semplice che ricostruire strade interrotte o inviare aiuti umanitari. Il maggior rischio è l’improvvisazione. I soccorritori, a tutti i livelli, dovrebbero essere preparati anche psicologicamente, perché il primo intervento è fondamentale per la futura ripresa.
Ma le ferite invisibili, anche se curate, lasciano cicatrici; la sindrome post-traumatica di una guerra à diversa dal dopo-shock di una catastrofe naturale perché investe la fiducia nei propri simili. Ad ogni guerra una fetta di umanità perde immediatamente qualcosa, l’altra fetta la perderà nel tempo.
La speranza, per prima. Ma tutti, in fondo, perdiamo qualcosa. Ogni guerra, anche nel posto più sperduto, fa vittime a distanza, spesso inconsapevoli del senso di nulla subito”.
Parlare, comunicare, per attenuare l’onda d’urto emotiva, è fondamentale quasi quanto un riparo al sicuro, un pasto caldo o una coperta. Per chi può permetterselo, anche dialogare in internet, nei blog o nei forum, funziona da terapia collettiva.
In questi giorni di crisi israelo-libanese, tra i boati dei bombardamenti e l’urlo lacerante delle sirene, alcuni ragazzi e adolescenti israeliani e libanesi, sui forum di discussione (come quello del sito beirut.com o islamonline.net) hanno sfogato dolore, rabbia, disperazione, interrogandosi sul perché della guerra che ha sconvolto i loro Paesi, portandosi via una estate della loro vita.
Nelle città di Israele funziona da tempo un pronto intervento psichiatrico: gli psicologi raccomandano soprattutto agli adolescenti di “non nascondere la tensione sotto il tappeto”, di non ignorarla, ma anche di non ingigantirla al punto da soffocare la vita. I bambini, come sempre, sono i più indifesi, con un alto rischio di traumi mentali persistenti. Secondo uno studio sui profughi palestinesi pubblicato su “The Lancet” (maggio 2002), l’essere esposto prima ad un bombardamento e poi alla demolizione della propria casa è il fattore più determinante nello stato di stress vissuto successivamente dal bambino.
Il trattamento è difficile perché la condizione di guerra o guerriglia persistente impedisce di rimuovere la causa dello stress. Eppure, nei centri gestiti dalle organizzazioni umanitarie, i bambini imparano a creare fiori di carta, a costruire aquiloni, per ricominciare in qualche modo a sognare.
Articolo di Rosalba Miceli tratto da: www.lastampa.it