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    Le nuove tecnologie: un’occasione mancata di lavoro per gli psicologi

    In stampa sul Giornale Italiano di Psicologia
    1. Attualmente ci sono in Italia ci sono oltre 35.000 psicologi iscritti agli albi professionali e circa 50.000 studenti iscritti ai corsi di laurea in psicologia. Gli psicologi professionisti sono aumentati dal 1994 in poi di circa il 10% ogni anno e il grande numero di studenti universitari di psicologia mostra che questa tendenza a crescere non si ferma. Negli ultimi anni è aumentato il numero delle università che offrono corsi di laurea in psicologia, senza che per questo diminuisse (anzi spesso è aumentato) il numero degli studenti che si iscrivono ai corsi di laurea già esistenti. L’Italia ha oggi un rapporto tra psicologi e totale della popolazione pari allo 0,61%, che la colloca al terzo posto, solo dopo l’Olanda e la Svezia, nella graduatoria dei paesi europei con più densità di psicologi. (Tutti questi dati sono tratti da un libro recente (Sarchielli e Fraccaroli, 2002) dedicato alle professioni dello psicologo.)
    Che lavoro fanno tutti questi psicologi? Come sono occupati? La risposta è nota: la stragrande maggioranza degli psicologi professionisti (cioè esclusi i docenti universitari e i ricercatori) sono occupati nel campo dell’aiuto alle persone che hanno problemi psicologici, cioè nel campo della psicologia clinica, della psicoterapia, degli interventi di sostegno, individuali, di gruppo, nelle organizzazioni, come professionisti privati o nell’ambito di strutture pubbliche. Oggi la società produce parecchio disagio psicologico nelle persone, e per di più ha reso marginali molti dei modi tradizionali di gestire il disagio psicologico. Perciò non c’è da sorprendersi che abbia bisogno di professionisti che si occupino di questi problemi.
    Tuttavia 35.000 psicologi e 50.000 studenti di psicologia sono veramente tanti. È inevitabile che gli psicologi già sul mercato abbiano difficoltà a trovare sbocchi professionali che siano soddisfacenti dal punto di vista economico e del tipo di lavoro svolto, e talvolta sbocchi professionali tout court. Le cose diventano anche più critiche se si considerano i 50.000 studenti universitari di psicologia. "Il fabbisogno di psicologi nell’immediato futuro nel nostro paese sarebbe ridotto, limitato al solo ricambio generazionale e comunque ben al di sotto del numero di studenti che stanno conseguendo un titolo accademico in ambito psicologico" (Sarchielli e Fraccaroli, 2002, pag. 33). È naturale quindi chiedersi, come fanno Sarchielli e Fraccaroli, se "si possono individuare percorsi emergenti, non ancora consolidati, che garantiscano la futura espansione qualitativa della professione. A fianco dello psicologo clinico occupato nei servizi, che costituisce l’attuale nocciolo centrale della professione, è possibile intravedere nuovi settori e nuovi modi di applicare le competenze psicologiche?" (pag. 9-10).
    2. Lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie basate sul computer (il computer stesso, la multimedialità, gli ipertesti, Internet, le simulazioni, l’e-learning, i computer games, i telefoni cellulari, l’evoluzione futura della televisione interattiva), l’ingresso di queste tecnologie nei più diversi settori di attività degli individui e delle organizzazioni, la loro capacità di influenzare e modificare queste attività, sono tra i fenomeni che oggi saltano di più all’occhio e che hanno il più grande impatto dal punto di vista economico, sociale, cognitivo e culturale sulle società contemporanee. Queste tecnologie sono tecnologie cognitive, cioè tecnologie che aiutano e comunque modificano le attività che gli esseri umani svolgono con la loro testa, non con il loro corpo. Sono tecnologie che servono a comunicare, a conoscere, a capire, a imparare, a interagire con gli altri. Ora è o non è lo psicologo l’esperto del lavorare con la testa, del comunicare, del conoscere, del capire, dell’imparare, dell’interagire con gli altri? Quando un essere umano usa queste tecnologie non entrano in gioco proprio le capacità di percepire, di coordinare quello che si vede o che si sente con quello che si fa con le mani, di fare attenzione, di ricordare, di apprendere, di ragionare, di comunicare, di agire socialmente, che costituiscono i capitoli di una manuale di psicologia?
    In effetti, un minimo di familiarità con queste tecnologie e di riflessione su di esse mostrano chiaramente che queste tecnologie invocano l’intervento e il contributo dello psicologo. Questo non soltanto per il fatto che spesso le nuove tecnologie presentano carenze e difficoltà di uso per i loro utenti che lo psicologo dovrebbe essere professionalmente attrezzato a riconoscere, analizzare, spiegare e possibilmente eliminare. Ma soprattutto perché queste tecnologie sono oggi ancora in pieno sviluppo e probabilmente il loro futuro sarà ancora più innovativo di quello che è stato il loro passato. In questo campo l’innovazione tecnica deve andare di pari passo con l’innovazione nei comportamenti degli utenti. I problemi che oggi emergono nello sviluppo delle nuove tecnologie chiamano in causa chi studia il comportamento degli esseri umani perché, come ha scritto recentemente Business Week (13 maggio 2002), il "fattore costituito dalle persone che le debbono usare è normalmente un problema più difficile da risolvere che non qualunque difficoltà’ di natura tecnica". Perciò l’occasione eccezionale che si offre agli psicologi è quella di partecipare, fornendo un contributo unico e fondamentale, a questo processo di creazione così importante per la nostra società, dando forma ai futuri modi di percepire, di coordinare quello che si percepisce con quello che si fa, di capire, elaborare, creare, comunicare, interagire con gli altri. Lo psicologo non deve solo intervenire, come si tende a pensare, alla fine del processo di creazione e di produzione di una tecnologia e o di un nuovo prodotto, per verificare se quello che è stato prodotto "funziona" con gli utenti finali, ma deve intervenire all’inizio del processo di creazione e di produzione, per inventare nuovi usi, nuove soluzioni, per introdurre nuove idee. (Vedi l’intervista a Donald Norman pubblicata sulla rivista Sistemi Intelligenti in Anderson, 2000).
    Chi ha una formazione da psicologo avrebbe quindi la possibilità di trovare oggi una occupazione in uno dei settori tra i più economicamente importanti, intellettualmente e culturalmente vivaci, e professionalmente soddisfacenti della società. Le nuove tecnologie sono notoriamente un settore economicamente in espansione e capace di sorreggere l’espansione di molti altri settori della vita economica. Sono un settore dove il lavoro cresce e non si riduce, e dove si può venire pagati piuttosto bene. Sono, che ci piaccia o no, uno dei settori in cui oggi si esprime di più la creatività umana. E sono un settore in cui lo psicologo potrebbe trovare sbocchi professionali interessanti. E allora? Perché è necessario usare il condizionale? Perché gli sbocchi professionali degli psicologi nel settore delle nuove tecnologie non vengono neppure menzionati nel libro di Sarchielli e Fraccaroli (con la sola eccezione di un riferimento ai "contributi delle conoscenze psicologiche nella gestione dei siti Internet", Sarchielli e Fraccaroli, 2002, p. 107)?
    3. La ragione è semplicemente che gli psicologi ancora non hanno scoperto che esiste questa importante applicazione della loro disciplina e questo interessante sbocco professionale per i laureati in psicologia – ed è sorprendente che ci si sia lasciata sfuggire l’occasione della recente riforma dei corsi di laurea per affrontare il problema. (Per l’analisi di alcune delle ragioni che spiegano la lontananza degli psicologi dalle nuove tecnologie, si veda Parisi, 2000.) Oggi praticamente nessun laureato in psicologia viene formato nell’università per entrare nel mondo delle nuove tecnologie dando il contributo che potrebbe dare come psicologo allo sviluppo di queste tecnologie. A questa affermazione si può obbiettare che esistono insegnamenti in diversi corsi di laurea in psicologia dedicati all’ergonomia cognitiva, alle nuove tecnologie, ai rapporti tra nuove tecnologie e società, ecc. Ma questi corsi non cominciano neppure a risolvere il problema. Un laureato in psicologia che voglia avere l’effettiva possibilità di trovare una occupazione nel mondo della produzione delle nuove tecnologie deve avere essenzialmente due competenze: una teorico-sperimentale su quelli che sono i capitoli fondamentali della psicologia (percezione, coordinamento senso-motorio, attenzione, memoria, apprendimento, comunicazione, pensiero, interazione sociale, ecc.) e l’altra, completamente pratica e operativa, nella produzione di nuove tecnologie. Abbiamo detto produzione di nuove tecnologie, non semplicemente conoscenza delle nuove tecnologie, conoscenza dei principi teorici che sono alla loro base, capacità di usarle, capacità di valutarle, e così via. Una buona metà dell’intero corso di studi deve essere dedicato a lavorare in un laboratorio in cui lo studente impara a usare gli strumenti con cui si producono le nuove tecnologie e usa concretamente questi strumenti per produrre tecnologie: produce interfacce, pagine Web, simulazioni, impara a programmare, a usare gli strumenti di grafica computazionale, a produrre computer games. (Il fatto che gli studenti di psicologia oggi non imparino all’università a fare le simulazioni come nuovo strumento di ricerca di base in psicologia, così come imparano a fare esperimenti e test, è un altro fatto sorprendente dato che le simulazioni stanno diventando strumenti altrettanto importanti degli esperimenti di laboratorio per la ricerca in psicologia.)
    Perché metà della formazione di uno psicologo che vuole entrare nel mondo della produzione delle nuove tecnologie deve essere completamente pratica? Per due ragioni. La prima è che, come gli psicologi sanno, si impara facendo. Non c’è comprensione teorica, puramente verbale, di osservazione dall’esterno delle nuove tecnologie che possa sostituire la comprensione pratica, operativa che viene fuori solo se si cerca di produrne in prima persona. Se un’interfaccia non va, prova a farne una migliore. Se pensi che le nuove tecnologie possano servire per comunicare o per apprendere meglio e in modi nuovi rispetto ai vecchi modi di comunicare e di apprendere, prova a produrre delle tecnologie che dimostrino che è vero. Se un computer game può essere non soltanto un gioco di abilità senso-motorie, ma uno strumento di comprensione, ragionamento, soluzione di problemi, e può includere elementi di "intelligenza artificiale" e di "coordinamento sociale" tra più "agenti", prova a costruire un computer game che abbia le caratteristiche che dici e che faccia quello che dici.
    La seconda ragione perché la formazione deve essere pratica è che altrimenti i "tecnici", cioè gli informatici e gli ingegneri che oggi producono le nuove tecnologie, non permetteranno a un laureato in psicologia di entrare – a pari titolo e dignità – nel mondo della produzione delle nuove tecnologie. Per entrare e lavorare in questo mondo bisogna saper usare gli strumenti che usano i "tecnici", bisogna conoscere dal di dentro, praticamente, sapendoli usare, gli strumenti e le tecnologie. Non si tratta soltanto di saper programmare e di saper usare gli strumenti informatici. Bisogna avere familiarità di uso con le nuove tecnologie, in modo da conoscere quello che oggi si può fare e non si può fare con esse, in modo da pensare a nuovi usi e a nuove possibilità. Che cosa si può fare con un telefono cellulare? Che cosa si può fare con un sistema di e-learning? Che cosa si può fare con un computer game? Se c’è questa formazione pratica e lo psicologo è in grado di dialogare a pieno titolo con i "tecnici", lo psicologo può dare un contributo, un aggiustamento del tiro e di invenzione, sulla base della sua formazione specifica di psicologo che i "tecnici" difficilmente sono in grado di dare.
    In un interessante libro sulla "nuova economia" e il suo impatto sul lavoro e sulla vita degli individui, l’ex-ministro del lavoro del governo Clinton, Robert Reich, mette in luce il ruolo centrale che nella "nuova economia" hanno quelle che chiama due "personalità", più che figure professionali, che rappresentano due "differenti inclinazioni, talenti, e modi di percepire il mondo" (Reich, 2002, p. 53). Da un lato quello che chiama il "geek", cioè colui (o colei) che è "capace di vedere nuove possibilità in un particolare medium e che prova piacere ad esplorare e a sviluppare queste nuove possibilità". Dall’altro, lo "schrink", colui (o colei) che è "capace di "identificare nuove possibilità di mercato, cose che le persone potrebbero desiderare di avere, di vedere, di usare, e che capisce come si possano realizzare in concreto queste possibilità" (Reich, 2002, p. 55). Gli psicologi potrebbero essere formati per essere sia "geeks" che "schrinks", o tutte e due le cose insieme, dato che le nuove tecnologie sono tecnologie della mente e quindi le competenze tecniche di un "geek" sono anche competenze da psicologo, e dato che lo "schrink" è proprio chi conosce le persone e quindi (dovrebbe essere) uno psicologo.
    Modificare la formazione degli psicologi in modo tale che almeno un certo, non piccolo, numero di loro siano in grado di operare da protagonisti all’interno del mondo delle nuove tecnologie aprirebbe nuove e importanti possibilità di sbocchi occupazionali e professionali per i laureati in psicologia. Altrimenti non ci potrà lamentare che siano altri tipi di laureati, gli ingegneri e gli informatici ovviamente, ma oggi, forse, anche i laureati in scienze della comunicazione e in altri campi e settori universitari più capaci di reagire al nuovo, occupino i posti che potrebbero essere degli psicologi.
    Autore dell’articolo: Domenico Parisi
    Istituto di Scienze e Tecnologie Cognitive
    Consiglio Nazionale delle Ricerche
    Riferimenti bibliografici
    Anderson, R. Limiti organizzativi dell’interazione uomo-computer. Conversazione con Don Norman e Janice Rohn. Sistemi Intelligenti, 2000, 12, 391-424.
    Parisi, D. Perchè la scienza della mente non contribuisce di più allo sviluppo delle tecnologie della mente? Sistemi Intelligenti, 2002,12, 425-436.
    Reich, R.B. The future of success. Work and life in the new economy. London, Vintage, 2002 tradotto in italiano con il titolo L’infelicità del successo, Fazi editore).

    parisi@ip.rm.cnr.it

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