Il New York Times ha un articolo molto interessante sugli studi svolti negli ultimi 30 anni a proposito della cosiddetta “sindrome dell’impostore”. Con questa definizione si indica sia l’ intima convinzione che l’espressione esplicita di non essere abili, competenti, adeguati come pensano gli altri. Una specie di paura di aver “fregato il prossimo” e di averlo indotto a sopravvalutarci.
I questionari che misurano una convinzione di questo tipo contengono la richiesta di esprimere quanto si è d’accordo con affermazioni quali: “certe volte sento che il mio successo è dovuto soltanto alla fortuna” o “Do l’impressione di essere più competente di quello che sono in realtà”, “Se devo ricevere una promozione di qualche tipo, aspetto a dirlo agli altri fino a che il fatto è compiuto”.
Le persone che nutrono queste convinzioni tendono ad avere meno fiducia in sé stesse, sono più volubili e vengono colpite più frequentemente da ansie da prestazione. In certi casi il terrore di essere “scoperti” può diventare paralizzante.
Ma questa “sindrome” è un tratto caratteriale, riflesso di una personalità ansiosa, o una strategia sociale più o meno consapevole?
Nel 2000 alcuni ricercatori della Wake Forest University, rilevarono che le persone con alti punteggi nella scala che misura la sindrome dell’impostore si comportavano in maniera diversa nel predire il loro successo a un successivo test di competenze intellettive e sociali. Queste persone facevano in pubblico previsioni nefaste sui loro risultati, mentre in privato, cioè su dichiarazione anonima, giudicavano molto più alte le loro possibilità di far bene. In sostanza i ricercatori conclusero che molti di questi “presunti impostori” erano ipocriti. Adottavano l’autosvalutazione come strategia sociale, quand’anche inconsapevolmente, ed erano segretamente più sicuri di sè di quanto rivelassero.
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