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    L’infarto può essere una seconda chance

    Il dolore lancinante al petto. La corsa in ospedale. I farmaci, l'angioplastica per riaprire le coronarie. E poi in un letto d'ospedale, a fare i conti con la "sindrome del sopravvissuto". Chi arriva all'unità coronarica (l'80 per cento delle centomila vittime d'infarto che si registrano ogni anno in Italia) riesce infatti quasi sempre a tornare a casa: oggi la mortalità in corsia è bassa, attorno al 5 per cento. I veri guai iniziano dopo, fuori, quando tanti sentono il peso delle terapie e del cambiamento dello stile di vita: la mortalità risale, è già doppia a un mese dall'infarto, quadruplica un anno dopo. Molto dipende dalla scarsa aderenza alle cure: lo studio APTOR, presentato all'ultimo congresso della Società Europea di Cardiologia, ha dimostrato ad esempio che le terapie con antiaggreganti, utili a mantenere il sangue "fluido" per evitare occlusioni, non vengono seguite abbastanza.

    PARTNER – «In Italia l'aderenza alle cure non supera il 50-60 per cento – spiega Leonardo Bolognese, direttore del Dipartimento Cardiovascolare dell'ospedale San Donato di Arezzo -. Per migliorare le cose bisogna spiegare ai pazienti la gravità di quanto è successo, educarli. E puntare sulle mogli: dopo l'infarto gli uomini spesso non sanno neanche quali medicine prendono, si appoggiano del tutto alle compagne. Coinvolgerle è fondamentale per far seguire le cure e le raccomandazioni del cardiologo». Non a caso uno studio svedese su 155 coppie in cui il marito aveva avuto un infarto, presentato al congresso dei cardiologi europei, ha dimostrato che la prevenzione secondaria funziona davvero solo se entrambi i partner sono informati, seguiti, sostenuti: il benessere di chi sta accanto al paziente conta, perché una compagna consapevole e serena sarà di maggiore aiuto. L'infarto tuttavia mette a dura prova la relazione: qualche tempo fa un'indagine dell'Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri condotta su 100 coppie fra i 45 e i 75 anni ha rivelato che solo quattro coppie su dieci si ritrovano più unite di prima e mettono le basi per una vita più sana. In sei casi su dieci, invece, i partner restano insieme ma vanno in crisi, vivendo un inferno domestico di litigi e frustrazioni che peggiorano la qualità della vita e minano l'aderenza alle terapie: quando accade, una coppia su dieci arriva al capolinea.

    DISTURBI – «Il contesto affettivo e familiare del paziente che sopravvive a un infarto conta molto per la sua ripresa: la malattia obbliga a ripensare la propria vita e il rapporto di coppia – interviene Alessandro Boccanelli, direttore del Dipartimento di Cardiologia dell'ospedale San Giovanni Addolorata di Roma -. L'infarto è un fulmine a ciel sereno che costringe a vivere l'angoscia della morte incombente, l'ingiustizia per il "tradimento" della vita, la perdita dell'immagine di sé come persona integra: l'equilibrio interiore si incrina, a volte cede. Ansia, disturbi dell'umore, difficoltà a dormire o mangiare come prima: tutto questo crea tensione, allarme, conflitto nella coppia. Anche per questo l'intervento di uno psicologo che nei primi tempi segua entrambi dovrebbe diventare la norma». Il destino della relazione si decide in genere intorno a un anno dopo l'infarto. Nel 30 per cento dei casi si imbocca la via della depressione: lui si abbatte, pensa che il futuro non porterà nulla di buono, si sente sopraffatto e segnato dalla malattia; lei sopporta, si sacrifica, lo tratta come un bambino da accudire e, almeno all'inizio, riesce a fargli seguire le cure. Poi si stufa e se ne va (lo fa una su dieci) oppure entra in depressione: succede a due partner su tre, secondo dati presentati al congresso europeo di cardiologia, innescando una spirale di sofferenza familiare da cui diventa difficile uscire.

    NUOVO SLANCIO – «C'è poi un 20 per cento di coppie cosiddette "ipomaniacali" – aggiunge Boccanelli -. Lui, spesso commerciante, libero professionista o imprenditore, nega e riprende la sua vita di prima infischiandosene di medicine e consigli. Lei cerca di arginare i comportamenti a rischio, liti e recriminazioni sono all'ordine del giorno». Anche in questo caso una coppia su dieci non regge, ma la solitudine è un rischio grosso per chi ha avuto un infarto: si riduce l'aderenza alle cure, aumenta l'isolamento sociale e con questo il pericolo di scivolare in un malessere psicologico che, anche senza arrivare alla depressione vera e propria, accresce la probabilità di incappare in un nuovo guaio cardiaco. «Esiste però una terza via, quella che imboccano quattro coppie su dieci: la malattia diventa occasione di ripensamento della propria vita insieme e il "motore" per un cambiamento positivo, per un nuovo slancio nel ritrovare un senso della propria esistenza – osserva Boccanelli -. In fondo il messaggio che vorremmo dare ai pazienti è proprio questo: sopravvivere all'infarto è come avere una seconda chance da sfruttare per vivere meglio, dopo. Ma per riuscirci c'è bisogno di avere qualcuno accanto: i medici che rispondano a mille dubbi, gli psicologi che aiutino a superare le difficoltà, il partner che sostenga e accompagni in questo percorso di rinascita», conclude il cardiologo.

    Fonte: http://www.corriere.it/

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