L’economista e lo psicologo, professore alla Normale di Pisa l’uno, docente a Princeton e premio Nobel 2002 il secondo. Marcello De Cecco e Daniel Kahneman, seduti ai due lati di un divanetto in un albergo romano, partono da due formazioni e due esperienze diverse eppure si scoprirà nel corso dell’incontro molto più complementari di quanto si crederebbe. Kahneman è a Roma ospite dell’Enel per una conferenza del ciclo "Orienta", dodici incontri con i "guru" dei mercati più influenti.
I due professori cercano insieme di comprendere i motivi profondi della crisi economica in corso ma soprattutto, ora che si intravvedono timidi segnali di ripresa proprio in quel mondo bancario dove tutto era cominciato, di capire quali insegnamenti se ne possono trarre, e se sarà possibile far sì che questi rovesci non si ripetano. Una speranza quest’ultima, anticipiamo subito, che emergerà come assai remota. E i due docenti universitari ci spiegano perché in quest’intervista "parallela".
I nostri due ospiti, iniziano col presentarsi.
De Cecco: «Ho studiato a Cambridge con Richard Kahnj e poi, per vedere l’altra faccia della luna, alla scuola di Chicago negli anni di Milton Friedman, Questi faceva lezioni molto belle e nei seminari era gentilissimo con gli studenti, feroce con i colleghi. Ho insegnato prima in Inghilterra, poi a Siena, alla Università Europea di Fiesole, a Roma, alla Sapienza, e infine alla Scuola Normale Superiore di Pisa».
Kahneman: «Io ho fatto per tutta la mia vita lo psicologo, inizialmente in Israele, poi a Berkeley, quindi come professore a Princeton. Ora da due anni sono andato in pensione. Ci tengo a puntualizzare questo perché pur essendomi stato attribuito il premio Nobel per l’economia, non mi ritengo uno specialista di finanza. Anche la scuola di "behavioral economics", l’economia comportamentale, si è sviluppata parallelamente al mio lavoro ma senza che io ne fossi direttamente coinvolto. Mi interessa l’uomo in quanto tale, la sua capacità di prendere decisioni, i condizionamenti che subisce, la sua capacità di valutare le conseguenze di ciò che fa».
Questo equivale però ad un nuovo modo di vedere l’economia: come può la psicologia influire sulla capacità di comprendere i rischi?
Kahneman: «In America c’è stata una sistematica sottovalutazione dei rischi. C’è un concetto di base sul quale ho lavorato per diversi anni, e a proposito del quale mi sono spesso scontrato con altri docenti e anche a volte con l’opinione pubblica, quasi che la gente non volesse stare a sentire. Il concetto è il "quality control" nella fase di elaborazione e implementazione delle decisioni. Quante volte ci si chiede fino in fondo, e soprattutto quante volte un capo ascolta quanti glielo chiedono, se una certa decisione dev’essere davvero presa in quel modo? Tutte le strutture gerarchizzate, a partire dai consigli d’amministrazione, sono carenti in questa fase. Dovrebbero introdurre dei precisi standard per verificare che una decisione sia presa a ragion veduta. Il problema è che le decisioni spesso, ho scoperto non senza sorpresa, sono irrazionali. Proprio il profilo del rischio è il più importante: è come se i manager sapessero che stanno correndo dei rischi, e decidessero coscientemente di correrli ugualmente. E l’esperienza, propria o di altri, non insegna nulla. Ogni manager si crea delle proprie certezze, fra cui la certezza dell’infallibilità, e tutti sanno che proprio le certezze fanno tanto male al mondo almeno quando sono inossidabili da dubbi o intromissioni».
De Cecco: «Questo spiega perché ogni trentaquarant’anni c’è una crisi sistemica davvero distruttiva, come quella che stiamo attraversando che a mio parere è la peggiore dai tempi della Grande Depressione. Però, a proposito di gestori finanziari, c’è il caso di John Simmons, illustre matematico, che gestisce degli hedge funds per i quali la crisi sembra non esistere: ha continuato a guadagnare miliardi di dollari sia nel 2008 che in tutti questi mesi di difficoltà e di crollo dei mercati».
Kahneman: «È un caso isolato, l’eccezione che conferma la regola. E poi Simmons ha decine di economisti con il PhD che lavorano per lui, e un’imponente capacità elaborativa con i computer. Non tutti i manager hanno la stessa taskforce a disposizione. Suppongo abbia trovato qualche arcana regolarità nei dati che gli permette di impostare strategie di arbitraggio vincenti».
Restiamo però sul nodo centrale. Com’è possibile che i banchieri, pur sapendo che certi loro comportamenti sono a rischio, e sapendo altresì che le crisi possono succedere come sono sempre successe nel passato, continuino a reiterare comportamenti tanto rischiosi?
Kahneman: «Beh, intanto ogni crisi, come ha scritto Nassim Taleb nel libro "Black Swan", si presenta con caratteristiche diverse e rivela insidie nuove. E poi ci sono gli elementi di irrazionalità e di sorpresa che nelle decisioni economiche sono molto forti. Una sorta di ‘licenza di imprevedibilità’ consente oltretutto ai capi di mantenere autonomia e indipendenza, e loro hanno tutto l’interesse a mantenere questa componente proprio per non dover dividere il loro potere con nessuno. È come se avessero un gusto perverso nel sorprendere tutti. Prendiamo le banche: hanno guadagnato benissimo fintanto che i rischi non hanno "colpito", poi però quando è crollato tutto hanno perso molto di più di quanto avevano guadagnato. Eppure lo sapevano, dovevano saperlo».
De Cecco: «A proposito di rischi, vorrei sottolineare il caso dei ‘credit default swaps’. Erano poco usati fino al 2005 proprio perché non sembrava ci si dovesse assicurare contro i rischi insiti nei derivati. Poi è arrivato Bernanke alla Fed, è iniziata una rapida politica di aumenti dei tassi d interesse, le prospettive di rischio sono peggiorate e c’è stata una gigantesca corsa ad assicurarsi mediante i Credit Default Swaps».
Kahneman: «Resto molto pessimista sulla possibilità che si riesca ad evitare il rischio in futuro. Questo secondo me ha anche a che vedere con un certo ottimismo degli americani, che si trasforma a volte in incoscienza. Gli europei sono per natura meno ottimisti».
Ci sono davvero popoli tendenzialmente più ottimisti o più pessimisti di altri?
Kahneman: «Gli americani in fondo sono più ottimisti degli europei, forse per la loro storia, per il fatto di essere una nazione giovane composta da emigrati ognuno con la sua personale voglia di rivalsa e di riuscita. Io come israeliano mi sento molto più vicino agli europei. Ho provato spesso a spiegarlo ai miei amici americani, ma sotto questo punto di vista non vogliono proprio sentirci. Anzi, per loro il solo sentir parlare di "europei" suona quasi strano, come un concetto lontanissimo e vagamente ostile. Suscita le stesse reazioni di parole come "socialismo". Intendiamoci, l’ottimismo in sé non sarebbe un fatto negativo, ma un altro problema, oltre agli eccessivi rischi, è che in America spesso porta, come esasperazione della forza di volontà, ad un eccessivo individualismo egoistico».
De Cecco: «E’ assolutamente vero. Ricordo un foglio di consigli distribuito da una università americana ai suoi studenti stranieri, che diceva, più o meno "non vi aspettate che un americano sia vostro amico". Gli Stati Uniti sono un posto molto individualistico. Persino i legami familiari, quando un europeo si trasferisce in America, tendono ad allentarsi e a perdere importanza. Quanto al pessimismo europeo vorrei fare un’eccezione: gli inglesi. Sono molto più simili agli americani, lasciatelo dire a me che ho una moglie inglese, come se si vedesse in questo la loro radice comune. Gli americani, non dimentichiamolo, erano all’origine degli inglesi alle prese con il problema di colonizzare un territorio immenso».
Ma questa differenza caratteriale, e quindi i comportamenti che ne conseguono, può davvero spiegare la crisi economica?
Kahneman: «C’è un altro fattore tipico degli americani che risulta utile per capire: il potere del denaro, sicuramente più forte che in Europa. Noi, all’università di Princeton, abbiamo fatto un esperimento nel quale abbiamo inserito un salvaschermo del computer a certi volontari per un tempo prolungato con un’immagine di dollari, e ad altri partecipanti all’esperimento uno che rappresentava dei fiori. Non ci crederete ma gli appartenenti al primo gruppo, che vedevano il salvaschermo coi dollari, prendevano decisioni molto più rischiose di quelle prese dagli appartenenti al secondo gruppo. Mostravano di essere anche meno disposti a gesti altruisti, come aiutare lo psicologo a raccogliere un mazzo di matite che aveva ad arte fatto cadere.
Anche il celebre esperimento di dare 20 dollari ad una persona, dicendogli di dividerli con un’altra a suo piacere, ma sapendo anche che se l’altro non accetta l’offerta nessuno dei due prende nulla conferma questo comportamento. Chi riceve i venti dollari comincia offrendo un dollaro all’altro, il quale rifiuta. Probabilmente qualche anno fa avrebbe accettato, perché c’era meno avidità. Oggi un’offerta inferiore a 67 dollari viene istintivamente rigettata».
De Cecco: «Per completare la geografia dell’individualismo e del "greed"forse dobbiamo parlare dell’Asia».
Kahneman: «È un mondo tutto diverso. I cinesi sono individualisti e propensi al denaro ma con un forte senso della collettività. Sanno che se azzardano e perdono, scatterà un network di protezione a difenderli. Tornando agli Stati Uniti, la verità è che in America è più importante per un leader essere ottimista che intelligente. Però dato che la gente spesso è più intelligente dei leader, intendo soprattutto i grandi manager, adesso tutti hanno capito che dovranno vivere in un periodo di grandi incertezze».
A proposito di leadership, come giudicate i primi tre mesi di Obama e le sue ricette di salvataggio delle banche?
De Cecco: «Non credo che abbia scelto i collaboratori giusti in campo economico, perché quelli che ha sono troppo compromessi con le teorie e con le pratiche dei due decenni precedenti, che hanno in buona parte determinato la crisi attuale».
Kahneman: «Obama sta facendo bene considerata l’immensità dei problemi che lui ha inevitabilmente dovuto affrontare tutti insieme…. C’era l’altro giorno un editoriale sul New York Times intitolato "Discipline of the uncounscious": metteva molto bene a fuoco le caratteristiche di Obama, quelle di un vero leader freddo e calcolatore quanto basta, però al contempo emozionale trascinatore. In confronto a quello che c’era prima siamo entrati finalmente nell’era della ragione. Ad una cosa deve stare attento: non dare l’impressione che vuole salvare i banchieri anzichè i depositanti nelle banche, e a non esagerare con i proclami di nazionalizzazione, che in America è vista come una bestemmia. E’ un buon terreno di sperimentazione per il terreno di cui parlavo prima, il "quality control"».
De Cecco: «Vorrei fare un’ultima domanda al professor Kahneman. Sono sempre stato intrigato dai limiti e dalla valenza economica dell’intuizione. Per un ingegnere meccanico l’intuizione probabilmente ha meno importanza, perché deve far sì che tutti i pezzi del ragionamento collimino alla perfezione. E per un banchiere?
Kahneman: «Ho lavorato diversi anni fa con Gary Klein, uno dei massimi studiosi dell’intuizione, alla quale ha dedicato diversi libri. La nostra scoperta è stata che la gente non si fida delle persone che si basano sulla sola intuizione, devono dimostrare una vera preparazione. Ci sono decisioni in cui l’intuizione aiuta, ma è sempre un’intuizione basata sull’esperienza, e quindi sulla capacità di interiorizzare rapidamente gli insegnamenti di una cosa già provata. In finanza, l’intuizione mal si applica a decisioni molto complesse, che possono avere pesanti conseguenze. Guardate Warren Buffett: ha un’esperienza immensa, basata soprattutto su intuizioni. Ma ora anche lui ha sofferto della crisi. Anche lui è caduto nella trappola: ha preso dei rischi senza sapere di correrne. E’ stato wrong about the odds, ha calcolato male che anche lui poteva sbagliare».
Fonte: http://www.repubblica.it/