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    Quando la guerra «uccide dentro»

    Li vedono anche di notte. Il sangue, il fumo, le bombe, le urla. Li segue, come l’ombra al fianco della paura, il dolore di essere lontani da casa. Il sergente di prima classe Mark C. Warren, 44 anni, appena arrivato in Iraq, chiede aiuto al dottore. Ne riceve un blister di «Effexor», sentinella dell’umore contro la depressione. Al marine Allen Guy, 26, invece, si prescrive lo «Zoloft». E alla soldatessa Melissa Hobart, 22, di stanza a Baghdad, migliaia di miglia da sua figlia, il «Celexa». I due colleghi, poco dopo, si suicidano. Lei muore: «causa ignota». Secondo il Dipartimento Usa per i Veterani (Veterans Affairs Department) potrebbero essere 15 mila, non i 2900 annunciati al Congresso, i reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan colpiti dal «male oscuro» della guerra. Come il caporale Roel Briones, «fotografo» della strage di Hadiha, nei guai in patria con la giustizia: colpa di ciò che ha visto e ha dovuto fare. Troppo, al punto di «scoppiare».

    È il lato oscuro delle guerre contro il terrorismo, oltre che di attentati e disastri. Ha una sigla: PTSD, Post Traumatic Stress Disorder. È l’angoscia di vivere con certe immagini dentro, sporchi del sangue proprio e altrui. Kathy Lee, ex infermiera dell’esercito, in forza al Centro per i reduci del Missouri, definisce i dati «incredibili». «A ogni rientrato – spiega sconfortata – consegno una lista e chiedo: "Quanti di questi sintomi (di Ptsd, ndr) hai?" Normalmente sono 9 su 10». I dati sui siti della associazioni di Veterani, sulla stampa americana (e in versione edulcorata nelle statistiche del Pentagono) non comprendono quanti sono ancora in zona di guerra, impegnati a salvarsi la pelle nell’escalation afghano-irachena. Della loro mente qualcuno si occuperà. Dopo. Intanto lo «Zoloft» deve bastare.

    Il marine divenuto noto come «Marlboro Man», ripreso a Falluja con la cicca appesa all’angolo delle labbra, il sorriso bello e dannato in stile James Dean, è oggi un povero «disturbato». Il PTSD non fa sconti: c’è la colpa di essere il «sopravvissuto», ci sono i flashback, quando ritorni lì, nel minuto dell’orrore, e poi gli incubi, la depressione, l’irritabilità. La voglia di spararsi qualcosa in vena per non vedere più. O di infilarsi dieci grammi di piombo nel cervello, per chiudere davvero. Il numero dei suicidi cresce, costante. Nel 2005 sono stati 83; erano 67 nel 2004, 60 nel 2003, l’anno dell’invasione dell’Iraq. «Non siamo in allarme per il "leggero" aumento – minimizza un portavoce dell’esercito, il colonnello Joseph Curtin – ma prendiamo la prevenzione molto sul serio». Ovvero: più «combat stess team», psicologi di prima linea e retrovia. Per salvare il salvabile.

    Le cifre sono inquietanti. Del mezzo milione circa di soldati che hanno servito in Iraq o in Afghanistan almeno 144 mila si sono rivolti al Veteran Affairs Department per assistenza sanitaria, di tipo psicologo-psichiatrico per almeno un terzo di loro. Non è solo un problema americano. La «Sindrome del Golfo», già dopo il primo conflitto contro Saddam, aveva contagiato più di 1.300 militari britannici, uomini e donne, tornati in patria con gravi problemi psichici. L’Italia, nonostante le perdite gravi negli attentati e negli agguati a Nassiriya, ha visto la missione «Antica Babilonia» schierata su un fronte meno impegnativo sotto il profilo del combattimento. Ma, secondo Domenico Leggiero, responsabile dell’Osservatorio Militare, si starebbero manifestando problemi sanitari, anche da esposizione all’uranio impoverito. «Una decina di casi – spiegava già nel febbraio scorso – spesso sono soldati che avevano partecipato ad altre missioni all’estero, non si può ancora dire con sicurezza se siano stati contaminati durante Antica Babilonia». Il dubbio, però, resta.

    La fortuna di tornare a casa dalla guerra, di qua e di là dell’Oceano, confina con altri rischi. Il Pentagono lancia una terapia «virtuale» (sperimentale), con la «ripetizione simulata dei traumi psichici», sostiene Russ Shilling, alto ufficiale della Us Navy. Già provata in Israele, sui sopravvissuti agli attentati sui bus. Pare funzioni.

    John Baugh, 31 anni, di Kansas City, in cura in un centro di salute mentale, invece, ha visto fin troppo bene; e sa. Ricorda di essere stato «perennemente arrabbiato, pronto a scattare», di avere dormito «forse due ore per notte». «Bevevo, bevevo, bevevo… per cacciare via i fantasmi ma il rumore degli scateboard sulla strada mi suonava come una sparatoria in distanza kack-kack-kack-kack….». È il lato ignoto della guerra, quella che George W. Bush garantisce di «vincere», anche se ora aggiunge: «A prezzo di scarifici».

    Era accaduto ai genitori per il Vietnam: l’orrore dei tunnel, la jungla. Accade ai figli, adesso: Falluja, il «Triangolo» (sunnita), Baghdad con le bombe di strada. Chi sopravvive e torna è fortunato. Ma nella «sand bowl», la ciotola di sabbia come i marines chiamano l’Iraq, alcuni cominciano a non esserne più troppo sicuri. Temono che l’inferno li segua a casa, back home.

    Autore: Paolo Mozzo
    Fonte: http://www.larena.it

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