Quando la prima volta mi hanno parlato di riabilitazione cognitiva nelle demenze ero all’università e la mia mente ha creato immediatamente una associazione, quella al famoso ossimoro di Giacomo Leopardi “E 'l naufragar m'è dolce in questo mare”.
Webster (1986) ha definito la riabilitazione come un processo grazie al quale si cerca di ristabilire una condizione di salute o una ‘normale’ attività; ciò implica quindi un ritorno a uno stato premorboso, che se non pienamente nella norma, molto gli si avvicina.
Il prefisso ri collegato alla parola abilitazione fa riferimento a un generico ‘ancora in grado di…’, molto difficile nella demenza. Sebbene esistano alcune demenze reversibili, nell’accezione comune e per diffusione epidemiologica la maggior parte delle demenze è irreversibile e caratterizzata da un profilo degenerativo nel tempo.
Da qui la mia domanda iniziale:
come è possibile ripristinare qualcosa che non può tornare a essere ciò che era prima e che è destinato a peggiorare?
Allora da studente avevo applicato quella che potremmo definire una psicologia del senso comune (Heider, 1958), ma incarnavo anche quelli che sono i dubbi e le speranze di molti caregiver di pazienti con demenza. Oggi possiamo definire gli interventi di riabilitazione come finalizzati a “massimizzare la capacità di mantenere ruolo e autonomia nel proprio ambiente (con i limiti imposti dalla patologia, dal danno funzionale e dalle risorse disponibili) e aiutare la persona ad adattarsi al meglio per ogni differenza fra capacità raggiunta e desiderata” (Guaita A., Vitali S.F., 2004).
Tale nuova definizione è sicuramente più calzante e stimolante nell’ambito psicologico e neuropsicologico, applicato al campo delle demenze. Infatti, non vengono prese in carico solamente le difficoltà cognitive del paziente, ma la persona stessa, che pur affetta da patologia si relaziona a un ambiente fisico e sociale, che si fa ogni giorno più ‘ostile’.
Oggi è quindi utile disambiguare e differenziare le diverse correnti che rientrano sotto l’ampia definizione di riabilitazione cognitiva.
Da una parte possiamo parlare di training cognitivo, ossia di interventi mirati ad allenare le singole funzioni deficitarie attraverso un programma a difficoltà crescente sulla base dei risultati e l’applicazione di strategie specifiche, dall’altra di stimolazione cognitiva in cui non si ha come obiettivo il miglioramento delle prestazioni in compiti cognitivi, ma un miglior funzionamento nel contesto quotidiano (Bahar-Fuchs, A., Clare, L., & Woods, B. (2013).
Ma quali sono le più comuni tecniche di riabilitazione nel paziente con demenza?
Sicuramente una delle più utilizzate è la ROT (Reality Orientation Therapy), ideata da Folsom (1958) e successivamente sviluppata in collaborazione con Tauble.
Codificata in ambito italiano da Florenzano (1988), questa tecnica ha come obiettivo quello di migliorare l’orientamento del paziente rispetto a sé, alla propria autobiografia, all’ambiente circostante, attraverso un intervento formale (con lo psicologo) e uno informale (cioè prolungato nella giornata con l’aiuto del caregiver).
Ma la domanda che può sorgere spontanea è: se anche un paziente, ad esempio, alzheimeriano riesce a ri-orientarsi spazio-temporalmente, questo quanto lo può aiutare nelle difficoltà concrete della malattia? È possibile anche lavorare con la Terapia della Rimotivazione, di stampo cognitivo-comportamentale, che ha come obiettivo quello di contrastare la deflessione del tono dell’umore e combattere l’isolamento dettato da una progressiva incomunicabilità, attraverso brevi discussioni di temi di attualità̀.
Sempre in questa direzione la Terapia della Reminescenza il cui strumento cardine è il ricordo perché capace di unificare passato, presente e futuro, per migliorare l’adattamento alla realtà.
Fondamentale è anche l’approccio della Validation Therapy, codificato da Naomi Feil, che utilizza l’ascolto attivo del paziente con demenza, non cercando di riportarlo alla realtà del presente, ma strutturando l’intervento su una profonda relazione empatica di accettazione di sentimenti, emozioni, resoconti del paziente stesso.
In una direzione integrata sul versante cognitivo ed emotivo è il programma di riabilitazione Our Time, codificato da Spector e Orrell. Tale intervento è fortemente incentrato sulla persona e non sulla demenza, infatti, seppur affetti da processi patologici questi pazienti hanno delle abilità residue che possono essere allentate. Gli Autori propongono una generale attivazione del cervello (cognitività) e non una selettività delle funzioni da rafforzare.
Se le demenze portano ad una progressiva perdita della consapevolezza di se stessi e della propria condizione, l’intervento non può prescindere dal rimandare ai partecipanti la fondamentale importanza della loro unicità, che nei vari momenti diventa funzionale alla dinamica del potenziamento personale e del gruppo: i fatti verranno dimenticati, ma le opinioni possono essere espresse da ognuno e diventare un momento di scambio, di divertimento, di riflessione, andando a costruire e rafforzare le relazioni interpersonali.
Tutti gli interventi di riabilitazione cognitiva cercano di sfruttare la neuroplasticità cerebrale ossia quella capacità che il cervello ha, e che conserva anche in età adulta, di modificare la propria microstruttura.
Ma se al momento i programmi di riabilitazione non si traducono necessariamente in un aumento delle prestazioni cognitive ai test neuropsicologici di follow up, è utile applicare tale tecniche alla demenza?
Penso proprio di sì e per due ragioni complementari: da un lato agiscono a livello psicologico, rafforzando il versante emotivo e permettendo di camminare, seppur inconsapevolmente, sulla strada della malattia in modo più sereno; dall’altro a livello neuropsicologico, qualsiasi attivazione del cervello produce su di esso delle modificazioni (ancora non le conosciamo tutte) e può quindi contribuire a un rallentamento del deterioramento o a un rafforzamento di ciò che rimane.
Nel binomio riabilitazione e demenza quindi permane un ossimoro, quello tra impegno personale e risultato, forse più per noi psicologi che per i nostri pazienti: non sempre i due termini seguono un andamento concorde, ma ciò accade anche in casi di assenza di patologia, a conferma di quanto sia una comune variabile nella gamma dell’esistenza che dobbiamo imparare a considerare, nella difficoltà delle sue implicazioni.
Dott. Emanuele Tomasini
Psicologo, esperto in Neuropsicologia