Due recenti studi clinici fanno nuova luce su due importanti aspetti della vecchiaia; l'infelicità esistenziale e le terapie farmacologiche antidepressive. Ne dà conto la newsletter di AIOTE (Associazione Italiana per l'Oncologia della Terza Età – Onlus).
Vecchiaia e infelicità. Lo stereotipo secondo cui l’invecchiamento è inesorabilmente collegato a una condizione di infelicità esistenziale è duro a morire, ma è una rappresentazione non veritiera della realtà, almeno per la stragrande maggioranza degli anziani. Lo ribadisce uno studio appena pubblicato sulla rivista americana di psicologia Journal of Happiness Studies, nella quale i ricercatori dell’Università del Michigan hanno dimostrato che quasi tutti ritengono che l’avanzare dell’età comporti una diminuzione della felicità per gli altri, ma non per se stessi.
Gli psicologi hanno formato due gruppi di quasi 300 volontari ciascuno, il primo composto da trentunenni, il secondo da persone dell’età media di 68 anni, e chiesto loro di esprimersi sul livello di felicità del passato, del presente e del futuro, e di fornire la propria opinione in merito alla felicità dei 30 anni e a quella dei 70. Ebbene: la maggioranza dei componenti di entrambi i gruppi ritiene che questa scemi con il tempo, ma gli anziani hanno rivelato di essere più felici dei giovani, e i giovani di essere convinti che l’infelicità tocchi gli altri, avendo personalmente a disposizione tutti gli strumenti necessari per contrastarla. In altre parole, e come dimostrato in altre ricerche, la maggior parte di noi si ritiene al di sopra della media quanto ad armi psicologiche ed esprime di se stesso giudizi più positivi di quelli riservati al prossimo.
Coloro che, al contrario, rimpiangono gli anni verdi, pensano di aver avuto una giovinezza più felice di quella dei ragazzi di oggi, ma anche che la vecchiaia sarà peggiore del presente. Secondo gli autori la maggiore serenità che caratterizza le persone più avanti negli anni dipende dalla loro capacità di rincorrere con meno intensità obiettivi quali la carriera, e di concentrarsi di più sulle relazioni interpersonali e sulla qualità della propria vita, nonché di gestire al meglio le oscillazioni dell’umore.
SSRI e tasso di suicidi. Una parte consistente di anziani, in ogni caso, non ce la fa a vincere la malinconia e la depressione da sola, e chiede aiuto alla farmacologia. Per costoro, secondo uno studio appena pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, ci dovrebbe essere una maggiore attenzione alle prescrizioni, perché l’assunzione di antidepressivi inibitori della ricaptazione di serotonina (SSRI, la famiglia del prozac o fluoxetina che comprende anche la fluvoxamina, la paroxetina, la sertralina e il citalopram) è collegata a un maggiore tasso di suicidi, proprio come accade ai bambini e agli adolescenti in terapia con questi farmaci.
Gli psichiatri dell’Università dell’Ontario hanno studiato la storia di più di mille persone di almeno 66 anni d'età che si sono suicidate nello Stato canadese tra il 1992 e il 2000, e l’hanno confrontata con quella di una popoplazione quattro volte più ampia di anziani, verificando l’assunzione di SSRI. Il 68 per cento dei suicidi non aveva assunto antidepressivi nei sei mesi precedenti la morte, ma tra gli altri il trattamento con SSRI è risultato collegato a un tasso di suicidi di cinque volte superiore rispetto a quello che si riscontra in anziani che avevano assunto altri farmaci per l’umore (con un numero di suicidi pari, rispettivamente, a un decesso ogni 3.353 anziani e a uno ogni 16.037); il rischio è particolarmente alto nel primo mese di terapia e caratterizzato dalla propensione alla morte violenta, soprattutto tra gli uomini. Sui motivi che collegano l’assunzione di SSRI con il suicidio per ora ci sono solo ipotesi. Spiega Juurlink, coordinatore dello studio: “Può accadere che i medici prescrivano questi farmaci più spesso a persone più propense al suicidio, anche se è improbabile, perché le nostre valutazioni hanno tenuto conto di questa possibilità.
Può invece essere che ciò accada perché gli SSRI non agiscono sulle intenzioni suicidarie con la stessa efficacia di altre classi di molecole, o perché aumentano il rischio di suicidio in persone fragili quali gli anziani depressi. In ogni caso è fondamentale che i medici non smettano di prescriverli, perché quasi sette anziani suicidi su dieci non avevano assunto alcuna terapia antidepressiva, e il rischio di un sottotrattamento della malattia può essere assai più grave di quello associato agli SSRI, che resta basso. Quello che si può e si deve fare per prevenire il più possibile è monitorare la situazione da vicino, soprattutto all’inizio della terapia”.
Bibliografia. Ufficio stampa AIOTE 2006.
Fonte: http://it.news.yahoo.com