In questi tempi incerti e difficili, di pandemia e Covid19, sempre più spesso ci si trova a dover affrontare problemi a complessità crescente. E quello degli anziani, ricoverati temporaneamente o permanentemente all’interno di strutture per servizi socio assistenziali è, probabilmente, uno di quelli che non trova soluzione, nell’immediato e che, forse, mai lo troverà.
Meglio allora chiudere tutto?
Tanto, come ha detto il Governatore della Regione Liguria in un infelice tweet subito ritrattato, gli anziani sono ormai “non produttivi” per la società e perciò sacrificabili, spendibili, vittime silenziose di questa pandemia, travolte dal male e dalla solitudine e che devono farci il favore di morire in silenzio…
“Abbiamo chiuso le case per malati mentali, abbiamo chiuso gli orfanatrofi: cerchiamo di chiudere presto anche le RSA!
Contrastiamo la follia che ci conduce a una vecchiaia artificiale di solitudine e di non vita, impegnandoci a percorrere vie diverse, come in altri Paesi.
Altrimenti succederà sempre più ciò che molti vecchi mi hanno confidato: chiedono di non venire più curati e di essere lasciati morire al più presto. Povera umanità!”. Parole che sono macigni. Le ha scritte, con un tono ruvido e volutamente polemico, l’ex Padre Priore della Comunità-Monastero di Bose (BI), Enzo Bianchi, su “La Repubblica”.
Ma è davvero così? E’ questa la strada sulla quale sarebbe ora di incamminarci?
La gestione dei pazienti affetti da malattie croniche – per definizione incurabili – come la demenza o le conseguenze legate ad un invecchiamento non di successo (diabete o ipertensione, solo per citarne alcune) rappresenta il maggior capitolo di spesa dei sistemi sanitari nazionali dei Paesi industrializzati.
Ciò fa riflettere sulla necessità di un cambio di paradigma, da parte del personale sanitario e amministrativo, nei confronti della presa in carico dei malati affetti da malattia cronica e dei risultati raggiungibili.
Serriamo le Case di Riposo, subito! E i vecchi ammalati? Chiudiamoli sulle navi traghetto, come ha proposto, quest’anno, qualche sfortunato politico nel Nord Est d’Italia, isoliamoli lì, in attesa che passi la tempesta, così riusciremo a proteggerli meglio e garantiremmo loro la sopravvivenz.
Eppure (e forse questo è un concetto che viene troppo spesso dimenticato) l’obiettivo primario di ogni sistema sociosanitario dovrebbe essere quello di massimizzare il benessere del paziente, soprattutto in quelle situazioni in cui la qualità della vita rappresenta un valore primario e, nel contempo, è particolarmente a rischio, come nei pazienti ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA o case di riposo), laddove, fin troppo spesso, dall’Assistenza di qualità con la “A” maiuscola, si scivola nell’assistenzialismo, improntato unicamente al soddisfacimento di due soli bisogni primari (alimentazione e sicurezza) attraverso l’applicazione di ferree regole organizzative imposte dalla struttura stessa e quasi mai comunicate, condivise o, meglio ancora, introiettate dalla persona residente in quella struttura.
Insomma, come grida da sempre Giorgio Pavan, direttore dell’ISRAA di Treviso, forse bisognerebbe spingere la riflessione lungo un altro binario: che non si possa e non si debba più concentrare le persone anziane come galline dentro ad un pollaio con l’unico scopo di mantenerle in vita ormai è chiaro a tutti; bisognerebbe invece far vivere bene (e non meramente sopravvivere) le persone anziane, offrendo loro tutte le opportunità possibili.
Come intendiamo, altrimenti, risolvere concretamente, il dilemma delle persone non autosufficienti, fragili, con devastanti problemi cronico degenerativi, desolatamente sole in questa vita o con famiglie sfasciate che non sono in grado nemmeno di badare a sé stesse o con famiglie che vorrebbero occuparsene ma non ci riescono, perché hanno altri mille problemi?
A monte – va da sé – è in gioco il valore che si vuole dare alla vita delle persone anziane e tra queste, a quelle meno fortunate.
Misurare il benessere
Ma che cos’è realmente e come si può misurare il benessere di una persona ospite di una residenza per anziani?
Esattamente che cos’è questa benedetta qualità di vita?
Il concetto di qualità della vita è difficile ed elusivo, non definibile in termini assoluti o universali ma individuale e personale: ha, cioè, un significato differente a seconda della tipologia di individuo, del particolare momento in cui quell’individuo si trova a vivere e della sua cultura di appartenenza. Esistono molteplici definizioni di qualità della vita.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità la definisce come: “la percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative e preoccupazioni. Riguarda quindi un concetto ad ampio spettro, che è modificabile in maniera complessa dalla percezione della propria salute fisica e psicologico-emotiva, dal livello di indipendenza, dalle relazioni sociali e dall’interazione con il proprio specifico contesto ambientale”.
E allora forse dovremmo ripensare, finalmente, le Case di Riposo, come un servizio essenziale, imprescindibile, un tempio della vita e non della semplice sopravvivenza. “Se riuscissimo a concepire le Case di Riposo come comunità aperte di vecchi che al posto di vivere soli o abbandonati entrassero a far parte di una comunità dove venir curati dai mali fisici che li affliggono ma anche da quelli sociali, forse qualcosa di buono riusciremmo a fare”, chiosa Pavan.
Il risultato di benessere e di qualità della vita della persona ricoverata in struttura dovrebbe essere l’obiettivo primario del prendersi cura della persona, l’outcome sul quale giudicare l’organizzazione nel suo complesso, dagli aspetti strutturali a quelli di cura e relazionali.
Secondo una recente ricerca dell’Università di Bologna, la “casa di riposo perfetta” è un luogo a misura di anziano, caratterizzato da un approccio alla cura non solo medico-assistenziale, ma che guardi al benessere globale del residente e non trascuri la qualità delle relazioni umane che si instaurano al suo interno.
Il tutto inserito in un contesto pieno di stimoli, con la progettazione attenta degli spazi affinché non siano asettici come le corsie di un ospedale, ma calorosi e accoglienti come una casa.
E una casa non si chiude, anche in tempi di pandemia, non trascura la relazione, non la abbandona a favore di una sopravvivenza vuota ma continua a generare e a far percepire il proprio calore. Ci sono certamente cose che si possono fare, per assicurare ed, al contempo, stringere le persone, anche se gli abbracci fisici non sono consigliabili.
Per iniziare, alcune piccole accortezze
Esistono guanti trasparenti, che non terrorizzano una persona con demenza che viene magari assistita da uno sconosciuto con le mani di colore blu o nero (non dimentichiamo quanto radicata sia, dentro al cervello dei nostri nonni, la paura che l’uomo nero venga di notte a portarli via… Come reagiremmo se un uomo che non ricordo di aver conosciuto, indossando guanti di colore nero o blu, ci portasse le mani alla gola per aiutarci ad espletare l’igiene del viso?).
Esistono mascherine trasparenti che lasciano scoperta la bocca, permettendone la vista da parte dell’interlocutore, che può così godere ancora di sorrisi ed espressioni del volto, senza doversi limitare alla pura interpretazione dello sguardo.
Esistono piccole attività quotidiane che si possono organizzare, dentro la stanza di ciascuno, che aiutino a comprendere il tempo che passa all’interno di questa bolla di isolamento in cui il covid potrebbe costringerci: la cartella della tombola da seguire in tv il lunedì, il foglietto della messa da ascoltare alla radio la domenica, il pasticcino del martedì, il quotidiano del giovedì.
Esistono divise di colori differenti che si possono utilizzare per caratterizzare lo scorrere dei giorni: così la domenica mi portano il pranzo indossando il grembiule rosso ed è un po’ una festa!
“I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità.”
Questo dicono i medici dell’ospedale di Bergamo nel loro articolo scritto per Catalyst, il media di approfondimento del New Enlgand Journal of Medicine e questa è certamente un’indicazione da seguire, se desideriamo invertire una pericolosissima tendenza, rilevata anche dall’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità del 6 aprile 2020, nel quale si sottolinea che, durante la pandemia da Covid19, grosse difficoltà si sono dovute affrontare, in Casa di Riposo, per garantire il distanziamento di anziani con disturbi del comportamento che vagano nei nuclei e ai quali è arduo far indossare e tenere le mascherine protettive, per i quali è stato rilevato un incremento significativo nell’utilizzo di contenzioni fisiche e psicofarmaci a partire dal 1° febbraio di quest’anno.
E’ così che vogliamo invecchiare? E’ così che ci aspettiamo di essere “gestiti” in caso di pandemia? E’ questo il futuro che desideriamo ci si materializzi di fronte? Sedati e legati perché non possiamo essere “contenuti”, per preservarci e preservare gli altri dal contagio, per poter meramente sopravvivere?
Articolo scritto dalla Dr.ssa Annapaola Prestia, docente nel corso “Lo psicologo e l’anziano in casa di riposo: focus su interventi specialistici e qualità della vita” organizzato da Obiettivo Psicologia.
Bibliografia
Kane RL. Measures Indicators and Improvement of Quality in Nursing Home, 2003.
Kane RL, Priester R, Totten AM. Meeting the challenge of Chronic illness. The Johns Hopkins University press, Baltimore 2005.
Luppi E. Prendersi cura della terza età. Valutare e innovare i servizi per anziani fragili e non autosufficienti. Franco Angeli Editore, 2015
Bertolini L, Pagani M. Qualità della Vita o Qualità della Cura? I Luoghi della cura on line, Num, 3, 2011.
Istituto Superiore di Sanità. Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. 6 Aprile 2020.